A Torino 2006 brillava la lucentezza dell’oro, da Vancouver l’Italia se ne torna con gli occhi colmi di lacrime. Eppure le ultime olimpiadi invernali hanno celebrato un aspetto normale nella vita di un campione: l’esperienza della sconfitta, della mancata conferma, della schiacciante superiorità mancata. A Torino li abbiamo ingigantiti, da Vancouver li facciamo tornare ammaccati e frettolosamente rimpiccioliti. Due su tutti: Enrico Fabris e Carolina Kostner. Due simboli giovani e vincenti di un’Italia che sulle loro fatiche e glorie aveva riposto l’ovvietà erronea di vittorie già date per scontate. Ma il vero campione conosce la dura legge dello sport dove è molto più semplice vincere la prima volta che confermarsi dopo la gloria, quell’inaspettata forza d’urto che ti travolge dopo che il tuo nome s’alza portentoso nel cielo. A Vancouver hanno fallito il bersaglio, ma non potremmo certo togliere loro l’onore, quell’onore che fa di due giovinezze due esempi di dedizione, di passione e di smisurato amore per uno sport anonimo che ti chiede di sudare per quattro anni nell’oscurità del disinteresse generale per poi giocarti tutto nella bellezza di un pugno di minuti: ed essere pronto a farti massacrare in mondovisione appena fallisci. Nonostante tutti sappiano che mille incognite sono sempre all’erta per ribaltare la casualità di una sfida olimpica garibaldina e imprevedibile.
Quando un re viene sconfitto nel suo territorio o una regina cade improvvisa sui suoi pattini di danzatrice ci si dimentica spesso che il sapore della vittoria nasce sovente sull’amarezza di certe sconfitte pesanti. Ma massacrare in mondovisione chi s’imbatte in giornate storte è semplicemente non riconoscere che la competizione è come una roulette russa il più delle volte. La storia dello sport racconta che non sempre vince il migliore, ma colui che in quell’istante sa reggere meglio il peso di mille variabili: ghiaccio, pressione, fatica, concentrazione, paura e attenzione. E sarà proprio questa la bellissima medaglia che indosseranno appena tornati in Italia i nostri atleti: la sete di un riscatto che sia la degna risposta di chi, forse troppo affrettatamente, li ha cacciati nell’inferno della derisione solo per non essere riusciti a ritornare lassù, da dove quattro anni fa guardavano il mondo sorridenti.
Chissà che tornati in Italia ci siano ancora tante scuole, oratori, palasport che li invitano come dopo la scorsa Olimpiade: allora raccontarono l’ebbrezza di una vittoria, l’emozione di un Inno cantato con le lacrime, lo stupore d’essere giganti. Stavolta potranno essere ancora più convincenti, perchè mostreranno l’altra faccia della medaglia: quella della sconfitta, del non appagamento, della fatica d’accettare di non essere invincibili. Ma sarà ancor più emozionante se nelle loro parole – come nel sorriso di Carolina intervistata al Tg1 – si riuscirà a rubare schegge di riscatto e desiderio di rifarsi: finalmente qualcuno ci testimonierà come si fa anche a perdere nella vita e, magari fra un po’, come una tremenda botta al morale sia il più delle volte il pungolo più ricercato per tornare ancora più in alto di prima. Ma questo è un messaggio fatto solo per chi sa osare, per gente caparbia e appassionata, per uomini di grande statura individuale. L’opposto è la creatura destinata a disseccarsi fino a precipitare nel banale.
E’ sempre possibile fallire simile traguardo. In ogni caso, chi vuol tentarlo deve rimettere in gioco ogni volta tutta la posta: e questa sarà la medaglia più motivante che verrà ricordata di questa Olimpiade.