Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

anatreselvatiche

(*) Il carcere – ch’è terra maledetta, il paese dei maledetti – in una cornice di bellezza. “Che c’entra?” mi sono chiesto quando sono stato invitato. In fin dei conti ci sono mondi migliori nei quali attingere dell’acqua fresca. Poi ho pensato che accettare gli inviti dell’Opera Romana Pellegrinaggi fa curriculum: “Accetta!” mi sono detto. Il problema, però, si è posto appena dopo che ho accettato. Una domanda mi ha assalito, come un mugghiare di tori: sarà mai possibile parlare della bellezza seduto dove sono, nei bassifondi luridi e fuligginosi di una patria galera del Nord-Est d’Italia? Se ho accettato, è perché ho un amico – dopo di lui gli altri miei amici (che sono pochi) hanno un’eredità che non possono portare – che, quando sono in difficoltà, mi tende una mano. Si chiama Antoine, è morto più di settantatré anni fa. La sua immane fortuna è stata anche la sua colossale malasorte: ha scritto un’opera che è diventata così grande da oscurare persino il suo papà letterario. Antoine de Saint-Exupéry lo conoscono tutti come l’autore de Il Piccolo Principe. Il che lo trovo di un’ingiustizia insopportabile: portategli rispetto. Antoine ha scritto anche del principe, ma ha scritto altre cose – che pochi leggono – che mettono quasi in ombra il Principe e la sua bellissima volpe. Terra degli uomini è una di queste opere: materia per amori stravaganti.
Non è per tutti, concordo.
Ad Antoine piacerebbe da-morire il titolo di questa riflessione: la bellezza negata. Non tanto il sostantivo bellezza, quanto l’aggettivo che gli organizzatori ci hanno posizionato accanto: negata. La bellezza-negata: è un titolo bellissimo. Ad Antoine sarebbe venuto il batticuore. Lui, abile pilota prima che scrittore, la bellezza amava cercarla laddove nessuno immaginava esistesse. S’incazzava tantissimo quando la trovava stropicciata, addormentata. Negata. Per Antoine il mondo è fatto solo per chi sa osare, per uomini di grande statura. L’opposto è la creatura che si dissecca, precipitando nel banale. Fino ad addormentarsi nel fondo di un vagone del treno come quei lavoratori polacchi, espulsi dalla Francia e spediti al loro paese d’origine. Non ci sarà futuro per loro, nonostante l’età: hanno spento la bellezza dentro di loro, hanno ammazzato quel Mozart che avrebbero potuto diventare. Anche negata, però, la bellezza rimane-in-agguato, un agguato. C’è una pagina gravida di stupore in Terra degli uomini. Quando l’ho riletta è come se Antoine mi avesse detto: eccola, ti aiuto io!

«Mi si sono presentate alcune immagini per spiegare a me stesso quella verità che non hai saputo tradurre in parole ma la cui evidenza ti ha guidato. Allorché avviene il passo delle anitre selvatiche, all’epoca delle migrazioni, provoca strane maree nei territori su cui transita, in alto. Le anitre domestiche, come attratte dal grande volo triangolare, abbozzano un balzo maldestro. Il richiamo selvatico ha destato in loro non so quali selvagge vestigia. Ed ecco le anitre della fattoria tramutate in un istante in uccelli migratori. Ecco che in quella testolina dura, in cui circolavano umili immagini di stagno, di vermi, di pollaio, si sviluppano le distese continentali, il sapore dei venti del largo e la geografia dei mari. La bestiola ignorava che il suo cervello fosse abbastanza vasto da contenere tante meraviglie; ma eccola battere le ali, disprezzare il grano, disprezzare i vermi e voler diventare anitra selvatica» (Terra degli uomini).

La bellezza, negata, rimane bellezza: bellezza-negata, rifiutata. «La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» (Gv 1,5). E’ luce-non-accolta, mica diventa oscurità. Il dramma sarà di chi l’ha rifiutata, crocifissa: ma la bellezza, anche derisa, rimane bellezza: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Che – sembra quasi un paradosso – quando si tenta di negarla, estrae il massimo della sua forza. Come quando stai per partire su un volo Ryanair e, vedendo che la tua valigia non entrerà mai in quella sorta di scheletro ferroso che ti trovi davanti, premi più che puoi i vestiti, fino a sederti sopra la valigia, per chiuderla. Qualora ci riuscissi, rimane un dubbio: “Speriamo che in volo non scoppi la cerniera”. Sei riuscito a chiuderla, ma quando l’hai lasciata all’hostess hai sentito tutta la forza che hai cercato di comprimere. Così è della bellezza-in-galera: quando la pensi negata, fors’anche uccisa, scatta in contropiede, ti ribalta la partita. Quando riapparirà – perchè riappare sempre – chi ha il privilegio di abitare quei bassifondi, contemplerà lo stesso gaudio di Antoine, quand’era allevatore: «Ed ecco le anitre della fattoria tramutate in un istante in uccelli migratori». I detenuti somigliano a delle anatre: il carcere li ha addomesticati, nel senso più infantile del termine. La bellezza, quando passa da quelle parti, ne risveglia l’animo-selvatico, la loro identità: li mette sull’attenti, schiaffeggia il torpore, spalanca un orizzonte. Lasciate che lo dica, senza che abbia a temere per la mia incolumità: quando decide di piantare-la-tenda in carcere, la bellezza accende una sorta pellegrinaggio. Un pellegrinaggio in quella terra-santa che è la storia di ogni detenuto. Lì dentro, piaccia o no, la storia della salvezza scorre.

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Il male. La negazione della bellezza

Non c’è nessun posto come il carcere in cui poter osservare da vicino la negazione della bellezza. Le condanne nascoste in quel frastuono di voci sono parole che parlano da sole: tutti carcerati per omicidio, rapina, stupro, incendio doloso, furto con scasso, spaccio di droga, acquisto di droga, compravendita di refurtiva. Terrore, terrorismo: la bellezza, quando viene zittita, produce tutto questo. Pur sapendolo, è risaputo che l’imbecille va allo sbaraglio: «Sembrano le anime in pena assiepate agli spiragli del purgatorio che si affacciano sull’inferno» (V. Hugo, L’ultimo giorno di un condannato). La legge violata è una bellezza-negata. La violenza su una donna, su un bambino, è bellezza-negata: trucidata. L’omicidio è, forse, la forma di bellezza-negata più alta. In carcere, insomma, tutto parla di morte: il cigolio rauco dei chiavistelli, la monocromia dei colori, la cacofonia dei suoni, la neutralità degli sguardi, il gusto del rancio, l’acidità dell’aria. Violata, violentata la bellezza, ciò che rimane è lo sconforto: il contrario della bellezza non è la bruttezza, nemmeno la malvagità: è la staticità. Genera la paura, quella che rende pericoloso anche un codardo. E gli uomini statici non sono più uomini, diventano una sorta di illustrazioni ambulanti che popolano i faldoni giudiziari dei tribunali, l’uomo diventa una calamita di guai. Anche una calamità: «Quando quelle quattromila voci restavano catturate nel canyon delimitato dai blocchi di celle, producevano un ruggito simile a quello di un mare in tempesta» (E. Burke, Educazione di una canaglia).
E’ la vita, vista da vicino.
E’ questo il momento preciso in cui il mondo perde un detenuto, il detenuto perde il mondo: quando la sofferenza si tramuta in rabbia. Quando una vita si fa tetra, disordinata, solitaria fino alla selvatichezza. Alla disperazione: “Ho ucciso, don Marco. Adesso capisco perchè l’ho fatto: ho procurato la morte perchè io, prima, ero già morto. Morto dentro”. Quante volte mi sento ripetere dalla gente di galera questo ragionamento: ho ucciso perchè ero morto. Dunque: ho ucciso perchè geloso della vita, mentre io ero nella morte. Guardandoli negli occhi – e confesso che certi sguardi spaventano, inorridiscono, agghiacciano – ciò che mi si spalanca dinanzi è una certezza: che la prigione, quella di cemento, è nulla in confronto alla prigione di un cuore che ha condannato-a-morte la bellezza: quel cuore è diventato una prigione orrenda, totale, indivisibile. Una doppia-prigione, giacchè – questo sembra un paradosso a dirlo di uomini di armi – talvolta capita che facciamo paura alla persona sbagliata: facciamo paura a noi stessi, invece che far paura agli altri. E’ una delle forme di terrore più spietate con le quali gli uomini hanno a che fare: si diventa uomini con la fonte bassa, gli occhi bovini.
Il carcere, da parte sua, risponde negando la bellezza. La prima bellezza, quella che rende l’uomo padrone della sua storia: la libertà. Il carcere è il paese senza libertà. La libertà di movimento, di scelta, anche di pensiero: è il caso di quelle prigionie stupide volute ed eseguite dalle dittature. Toglie la libertà degli affetti, forse la forma di bellezza-negata più atroce: senza l’amore, l’angelo muta in bestia. Il carcere diventa il paese delle bestie-infuriate: una sorta di bomba ad orologeria dentro il perimetro di una città. Dentro le patrie galere, insomma, ciò che spaventa è il potere della bellezza. Spaventa tutti: guardie, ladri, spettatori. Tolta di mezzo la bellezza, il detenuto smette le vesti del pellegrino e diventa un vagabondo. Cioè dichiara la sua sconfitta, anche la sconfitta della società che, in teoria, doveva rinchiuderlo dentro per tentare di ri-educarlo. Il carcere come una sorta di pellegrinaggio all’inferno. Il mio Antoine, vedendo gli uomini vivere in questa maniera, si dispererebbe: «Io ho bisogno di abitanti nel mio impero, non di campeggiatori che non provengono da nessun posto» (Cittadella).
Fosse diventato sindaco, Antoine avrebbe issato all’ingresso del paese un cartello con scritto a chiare lettere: «Divieto di campeggio». Il pellegrinaggio, se ci pensate, è divieto-di-campeggio. C’è una pagina di storia che mi incuriosisce molto. Verso il VI-VII secolo, i monaci d’Irlanda introducono l’esilio temporaneo per gli ecclesiastici che si sono macchiati di reati gravi, quelli che comportano l’esclusione dalla comunità. Il condannato viene spogliato delle sue vesti, viene vestito dei panni dello straniero. Diventa un proscritto che si trascina in catene da un santuario all’altro, finchè i ceppi non si spezzeranno da soli: sarà il segno del perdono divino. Che era come dire: hai sequestrato la bellezza? La bellezza t’incatena i piedi: si scioglieranno solo camminando. Un’idea estrosa che verrà presa a modello dall’ambiente giudiziario laico, con i pellegrinaggi giudiziali che allontanano il reo dalla comunità, soddisfano la parte offesa, possono riabilitare il reo. Si racconta che nel 1521 ad un tale Anthoine Bernard, elemento di spicco della criminalità, fu imposto un pellegrinaggio a San Nicola di Bari con l’obbligo di rimanere al di là delle Alpi per sette anni! Una volta rincasato, il pellegrino-detenuto aveva l’obbligo di presentare il certificato del santuario raggiunto, con la vidimazione dell’autorità del posto. A Roma, nella chiesa di san Giuliano, c’è un elenco di 431 pellegrini che dalle Fiandre si sono recati in pellegrinaggio a san Nicola di Bari e poi a Roma sulla via del ritorno. Il perchè è presto detto: un condannato, facendosi pellegrino, ritma le sue giornate con una nuova routine, ritrova fiducia in se stesso, si apre agli altri, abbassa la sua ostilità, recupera la capacità d’assumersi le responsabilità, accetta d’entrare nel tessuto sociale. «Questo viaggio non mi è servito a niente – racconta uno – l’unica cosa è che ho imparato a pensare, non faccio altro che pensare tutto il giorno». Non lo butterei via come guadagno l’imparare a pensare. Se fare-un-pellegrinaggio è una forma di catechesi, di prima-evangelizzazione, allora varrà bene ricordare quel segreto che uno scrittore spagnolo ha messo sulle labbra di Charles de Focauld: «Evangelizzare non consiste nel dare a qualcuno qualcosa che non ha, ma nel permettere a lui o lei di scoprirlo grazie a te» (P. d’Ors, L’oblio di sè)

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La bellezza. «Ciascuno cresce solo se sognato»

Come liberare l’uomo dalla disperazione? Che, tradotto, potrebbe suonare così: come rimettere in circolo la bellezza, esattamente quella che loro – che è gente maledetta – hanno negato a loro stessi, alla società intera? Ho trovato un passaggio tenerissimo di un dialogo d’amore tra un detenuto e la sua amata. Lei, scrivendogli, gli racconta un episodio: «Ho tracciato con un gesso una linea attorno al mio letto, larga all’incirca come la tua cella. Ci sono un tavolo, una sedia, come io mi immagino. E quando sono seduta lì, credo quasi di essere insieme a te». Parole di una donna, Maria von Wedeyemer, indirizzate al suo amato: Dietrich Bonhoeffer, una delle menti più lucide del Novecento, rinchiuso in carcere a Tegel (Germania) e fatto impiccare da Hitler. Nei suoi sogni, questa donna fa-spazio al ricordo di lui. Anche questa è vita-di-galera: troppo facile credere alla risurrezione dei morti. Pare troppo facile, lontano, anche astratto per qualcuno. Nel dimenticatoio del carcere, Dio affina la sfida, quella di credere nella risurrezione dei viventi. Di chi sbaglia, di chi fallisce, di chi ha bestemmiato gli uomini e pure Dio. Con gente accusata d’aver-sequestrato la bellezza, non rimane che rispondere con la medesima bellezza. “Hai offeso la bellezza? Non m’importa: ti parlerò della bellezza”. Ti sognerò.

«C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato».

(D. Dolci, Ciascuno cresce solo se sognato)

Il Novecento, per certi versi, è stato un pellegrinaggio nell’abisso del male. La bellezza era disperata, bestemmiata, striata, derisa, beffeggiata. Maledetta: l’uomo, gloria-e-bellezza di Dio, era stato fatto diventare un numero, un marchio di bestie, grasso da lavare. Esattamente in questa densità di buio, la bellezza è tornata di moda nella teologia. Che, guardate bene, non è il parlare accademico delle cose che riguardano Dio: fare-teologia è scrivere la propria storia con Dio. Prima che un sapere, teologia è un sapore, una forma di sapienza. Nell’indice di buio spaventoso, il Cielo ha rimesso in circolo la bellezza: si è tornati a parlare di Dio, del cristianesimo come una faccenda bella, oltrechè vera, buona. Cosa è successo? Una cosa semplice: l’uomo ha negato la bellezza, Dio si è nascosto in quella bellezza-negata e ne ha fatto il nascondiglio per tornare a riprendersi l’uomo che l’aveva dimenticato. Anche Dio, sopratutto Dio, talvolta si mostra nascondendosi. La più luminosa manifestazione di Dio è il suo nascondimento. Quasi un’affermazione illogica, eppure pare sia così: a Dio piace travestirsi da ciò che non è Dio. Il modo migliore di trovarlo, dunque, è cercarlo dentro le cose profane: cercare la bellezza laddove c’è bellezza-negata. Cosa non fa Dio per amore! Quando scompare assomiglia ai fiumi carsici: scompare per riapparire più forte, meno prevedibile. Che è come dire: la sua assenza (apparente) è una forma di presenza più ardita, più folle. Negata, la bellezza diventa inarrestabile: «Dopo quasi vent’anni di galera – mi ha confidato un giorno uno dei “maledetti” – ho scoperto d’aver perso la mia battaglia: rimanendo a contatto con il bene, con gente bella, mi sono reso conto del male che ho fatto. E ho deciso di prenderne le distanze». Da bellezza-negata, la bellezza è tornata a governare la storia di quell’uomo. E’ lo stesso di cui parla Bonhoeffer quando scrive ai suoi famigliari, dal carcere: «Non dovete pensare che io mi lasci abbattere per via di questo Natale in solitudine. Esso prenderà per sempre un posto particolare tra i miei Natali (…) Negli anni che verranno voglio poter ripensare a questo giorno non con vergogna, ma con un certo orgoglio. E’ l’unica cosa che nessuno può togliermi» (Lettera ai genitori, 17 dicembre 1943).
Succede spesso, qualsiasi carcere la creatura abiti: possiamo dimenticare le nostre disgrazie preoccupandoci di qualcos’altro. Di qualcun altro. Ogni forma di carcerazione offre al prigioniero il vantaggio di vedere il mondo con un occhio nuovo, quasi alla maniera di un artista. La bellezza-negata è il nulla: cancellata la bellezza, non rimane che il nulla. Eppure, se credete a ciò si narra nel libro di Genesi, il nulla è necessario alla creazione. Di più: nel nulla Dio mostra essere un impareggiabile equilibrista. Lasciatelo fare, voi.

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Negata, la bellezza urla: il tabernacolo vuoto

Con l’eucaristia celebrata ad Emmaus, a novembre scorso abbiamo chiuso un pellegrinaggio in Terra Santa, organizzato con Opera Romana Pellegrinaggi. Celebrare l’eucaristia in quel paese è percepire-tutta sulla pelle la sensualità assaporata da quei due viandanti la sera della prima Pasqua cristiana: «Resta con noi, perchè si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). Il Vangelo, dite pure quello che volete, produce un suono diverso a seconda di dove lo si legge: alla sorgente l’acqua è sempre la più fresca. Nel mio gruppo – gente appassionatasi, nel tempo, al sapore della teologia – c’era anche lei: una donna. Una donna con tutta la sua storia. La Terra nella quale ha vissuto Cristo è una terra che attira come una calamita: a pensarci per più di due attimi-di-fila, quasi spaventa l’idea di poggiare i piedi laddove Cristo li ha poggiati secoli addietro. Alla quiete monastica di Emmaus siamo giunti partendo dal paese di Nazareth, attraversando la Galilea, inoltrandoci in terra deserta, risciacquando il nostro battesimo nel Giordano. Per approdare a Betlemme, terra-del-Pane, e fare rotta verso Gerusalemme: terra di amori folli, di passioni funeste, di una Risurrezione inaspettata. Poi, prima dell’imbarco, Emmaus: «A chi di noi l’albergo d’Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto pareva perduto?» (F. Mauriac). Lei, quella donna, sempre in nostra compagnia.
A qualcuno della comitiva, un giorno confidò quel cruccio che le albergava nel cuore: la storia di un amore fratturato, la sorpresa di un nuovo incontro, il cuore che torna a batterle. “La sua situazione è irregolare, signora. Non può più accostarsi ai sacramenti”: una frase ripetutale ad ogni confessionale, un amore rinfacciato ad ogni navata, una memoria rivangata. Infangata. Una desolazione nel cuore. Ad ogni messa se ne stava acquartierata in parte, nella tempesta di mille pensieri: “Signore, che ci faccio qui?” Non in un altro posto, esattamente qui: nel paese che è stato di Maddalena, di Zaccheo, delle pubblicane, delle prostitute. Nel paese-della-miseria che Dio ha scelto perchè la gente imparasse che Dio abita nelle sue creature. A peregrinare nelle strade che han visto Cristo pellegrino, la scoperta è sulla punta del naso: nel Gesù che meno brilla (la bellezza-negata), proprio lì Gesù è più brillante. Vedeva gli altri accostarsi alla comunione, condivideva la fatica di credere ancora, non taceva la nostalgia di poter re-incontrare Cristo nell’eucaristia. Chi non conosceva la sua storia, non s’accorgeva di nulla. In realtà lei voleva Cristo, il suo Dio: «Ogni uomo dovrebbe sentirsi almeno una volta come un tabernacolo vuoto: in grado di contenere quanto vi è di meglio, eppure privato di ciò che si ama ed è sacro» (P. D’Ors). Il fatto è che non poteva: “La sua situazione è irregolare, signora”. Punto.
Ad Emmaus, al momento della comunione, lascio sull’altare per un po’ il Pane esposto: quella chiesa è una locanda, i fedeli sono viandanti come allora, il Pane è il medesimo. Quella volta lo riconobbero, anche stavolta accadrà: ne sono certo. Ci siamo concessi il lusso del silenzio prima di accostarci alla comunione. Ho dato loro un consiglio: “Tra le macerie della vita, raccogliete la più aspra: quell’istante nel quale Dio vi è sembrato assente. Quando l’avete individuata, accostatevi alla comunione”. Più di mezz’ora è durato il tempo della comunione: avere tempo per stare con Cristo è un lusso da signori, il lusso dei poveri. Per ultima si alza lei, quella donna: attraversa la navata, avverte la lama di qualche sguardo – “Non potrebbe! La sua situazione è irregolare, signora!” -, s’avvicina all’altare. Poi, col volto devotissimo delle grandi manovre, appoggia le mani sul Pane. E affida al bisbiglìo di poche parole la più tenera delle catechesi mai udite: “Mi hanno detto che non posso mangiarti, però son venuta a toccarti: ho bisogno di sapere che, comunque, ci sei”. Un minuto d’amore rispettoso, poi ritorna al suo posto: chi l’ha guardata, racconta di aver visto il vangelo scritto nel viso. Quelle mani di donna sul Pane-nudo sono state il mio vero pellegrinaggio: nessun tabernacolo si apprezza se prima non è stato vuoto.

don Marco Pozza
www.sullastradadiemmaus.it

 


(*) Testo dell’intervento di don Marco Pozza, dal titolo La bellezza negata, al XIX^ Convegno Nazionale Pastorale di Opera Romana Pellegrinaggi, svoltosi a Roma dal 29 al 31 gennaio 2017

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