Arriverà dal mare, scortato dalle barche degli isolani. Lui, Papa Francesco, come loro, profughi dalla pelle scottata dal sole e bruciata dalla salsedine del mare. Lui e loro, più gli altri: quei vecchi isolani di Lampedusa – la “porta” dimenticata e oltraggiata dell’Europa civile – che di padre in figlio, di generazione in generazione si tramandano quell’arcana virtù evangelica che è l’arte dell’ospitalità. E tutt’intorno il resto dell’isola, a fare da corona ad un gesto di altissimo valore simbolico: le motovedette della capitaneria, le vecchie donne che riassettano le reti da pesca, i volti straniti di chi è abituato all’oblio della storia. Troppi fin d’ora sono scesi nell’isola per farsi illuminare dalle telecamere e sfruttare l’angoscia di una terra martoriata: anche Francesco scenderà con tutte le telecamere del mondo addosso, ma la loro luce servirà per fare luce su questo mistero d’angoscia e di trepidazione che da anni abita la terra isolana.
Il mare che Francesco abiterà per qualche ora – a questo Papa bastano pochi minuti per scrivere pagine che spiazzano e interpellano, ndr – è un cimitero a cielo aperto: migliaia di profughi vi sono sepolti, frammenti di umanità disperata e dispersa, storie e avventure di genti cucinate nell’attesa di un porto nel quale attaccare l’àncora della speranza. Per il Papa argentino Lampedusa è una frontiera dell’umano, una di quelle frontiere che a più riprese e con urgenza invita la Chiesa ad abitare. E lui per abitarle rompe ogni protocollo, mette a repentaglio la sua incolumità, sembra sfidare pure lui le onde dell’imbarazzo e le tempeste degli ignavi: entra nel mare, sale su una barca e giunge a Lampedusa dalla parte del molo, la “porta d’ingresso” varcata e bagnata dalla disperazione dei profughi. Quasi a confermare che Cristo batte gli stessi sentieri dei poveri, che la Chiesa – se vuole essere la Sua chiesa – deve abitare quelle onde, non deve temere l’inedito di quel mare che arreca paura a chi non crede all’inimmaginabile di Dio. Sembra fare volentieri di testa sua il Papa: e questa è la garanzia più autentica di un uomo che sa di dover rispondere solo a Dio, a quel Dio ambizioso e paradossale che l’ha strappato alla periferia del mondo per farlo abitare al centro della cristianità, con il chiaro intento di re-insegnare il linguaggio evangelico della periferia. Nel più perfetto stile della Scrittura.
Non importa se il mondo sta alla finestra e guarda i profughi arrivare: Francesco non è l’uomo dei ritardi quanto quello degli anticipi. Si farà profugo tra i profughi, insudicerà la sua tonaca dell’odore acre del mare, c’è da giuraci che stringerà al petto qualche uomo o donna gettato dalla sorte alla ricerca della fortuna. Toccherà la terra isolana e, forte delle sue metafore quotidiane, saprà dire grazie ad una popolazione che, seppur stremata e in difficoltà, continua a fare dell’ospitalità il suo biglietto da visita al mondo. E’ il Papa delle sorprese ma non delle improvvisazioni: scenderà a Lampedusa qualche giorno dopo la sua prima enciclica Lumen fidei (“la luce della fede”), quasi a far memoria che la fede – come ricordava Natalia Ginzburg – non è una bandiera da portarsi in gloria, ma una candela accesa che si porta in mano tra pioggia e vento in una notte d’inverno. Magari nella notte di un mare tempestoso.
Un Papa con le vestigia dei profughi: come incipit del suo ministero s’addossò le ferite di un popolo rinchiuso dietro le sbarre di un carcere. Subito dopo additò nell’odore del gregge la misura della fedeltà a Cristo di un pastore. Ci sono gesti che valgono più di mille parole, perchè specchio di un cuore innamorato e di un pensiero divino: di questi gesti papa Francesco è poeta, ispiratore e interprete. Perchè spinto da uno Sguardo capace di inabissarsi nei meandri più arditi della storia. Fino a lambire le sponde dell’isola più lontana.
(da Il Mattino di Padova, 7 luglio 2013)