Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

pantaniLa bandana scaraventata a terra, lo scatto sui pedali, la danza di un Pirata salito dal mare sulle montagne. La gloria, l’onore, la magnificenza. Di tutto ciò oggi rimane una fredda tomba, a forma d’Alpe, laggiù verso il mare, in quel cimitero dei pescatori dove la notte avvolge il mistero, annoda le reti, distribuisce le pesche. Sarà stato il doping, la follia o l’ignobile malizia dell’uomo a spezzare il volo del sogno? Ai fedeli dello sport, dopo l’accaduto, le circostanze non contano: come nella notte di Superga e del grande Torino, come nella notte all’Heysel stadio di Bruxelles. Conta che una volta c’era una bella favola e adesso quella favola è scomparsa. Laggiù, dove la chiesetta s’affaccia sul porto, quel freddo mercoledì di febbraio eravamo quasi trentamila a piangere le gesta di un eroe, la vita di un ragazzo, i sogni di una nazione. A pagare il prezzo di una scelta le cui radici affondavano oltre la freddezza di una siringa trovata in una stanza d’albergo: nella solitudine, nell’abbandono, nel ricatto.
Del Pirata ricorderemo le vittorie e le prodezze: lo scatto felino che intimidiva salite e avversari, la bella strafottenza di un giovane innamorato della fatica, la poesia di uno sport ritornato a vestirsi coi colori dei tempi migliori. Sulle cime innevate del Tour, nelle discese bagnate del Giro, nello splendore della primavera e nell’arsura dell’estate. Il ciclismo era tornato a passeggiare nell’interesse di una nazione che ha barattato il cervello per una domenica calcistica. Di lui, però, i più ricorderanno l’altra faccia, quella faticosa e triste: le cadute per i gatti neri e l’ematocrito alto, la risurrezione e il calvario, le promesse e le sbugiardate. Ma, oltre tutto, la storia di un ragazzo dalla classe cristallina e dall’interiorità delicatissima. Un talento che abbassava lo sguardo, ringraziava i compagni, suoi fedeli scudieri, sognava anche di giorno la presenza di quel nonno Sotero che volle accanto a se’ nella tomba.
Peccato davvero che Marco sia morto invano: nulla è cambiato in quindici anni. Se n’è andato in punta di piedi mentre il mondo quel sabato sera festeggiava un santo strano, quel Valentino protettore degli innamorati. Degli innamorati nel cuore: ma forse anche nella passione, nei sogni, nel futuro. Lui quella sera se ne stava solo, specchio onesto di un’esistenza sola: e quando il cuore dell’uomo rimane solo anche la mente s’avvolge nella paura d’essere insignificanti. Se n’è andato in punta di piedi, ma in lotta con un mondo dal quale si sentiva tradito e che, forse, aveva tradito. A nulla valsero le ripartenze, l’affetto di chi credeva ancora in un sogno, la cordialità della semplice gente ai bordi delle strade. Antiche chimere e vecchi scheletri infiacchirono l’animo di uno tra i campioni più odiati e contestati dell’ultimo secolo di storia sportiva della nazione.
Di lui rimarrà una lunga letteratura: chi lo vorrà nelle nicchie dell’eroe tragico e dannato, chi del condottiero indomito e strenuo, chi del traditore al quale la condanna fu giusta e meritata. In realtà rimarrà solo un lungo e secolare mistero ad avvolgere il minuscolo corpo di quel dio troppo presto sceso negli abissi degli inferi per non ritornare più nei giardini della normalità.
Quel mistero che nella storia racchiude nel suo silenzio il genio e la follia di chi, nato campione, non seppe reggere il peso della gloria. E di chi, nato gregario, tentò invano d’allearsi col gatto e la volpe per ingannare uno sport che, nonostante tutto, rimane l’emblema più bello dell’esistenza umana.
Dove morte e vita s’affrontano quotidianamente in prodigiosi duelli.

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