Stir 3

Non sempre siamo sufficientemente consapevoli delle nostre schiavitù. La più grande schiavitù di tutte è – infatti – proprio quella di essere schiavi, pur illudendosi d’essere liberi. È di questo che parla l’Apostolo, nella seconda Lettura:

in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (Rm 7,19)

Nella sintesi di san Paolo, probabilmente, può ritrovarsi ciascuno di noi. Difficilmente, infatti, qualcuno si volge al male, in cerca del male. Il più delle volte, in verità, anche il male compiuto con consapevolezza non è altro che un’incomprensione: convinti di fare la scelta migliore, ci rendiamo conto – solamente dopo – che si trattava solo della scelta più comoda, nella quale siamo rimasti avvinghiati e, più ci dimeniamo, più ne rimaniamo prigionieri. Qualche volta, del resto, il male che compiamo trova, invece, la propria origine nella stanchezza: la spossatezza fisica (o mentale), ci rendono nervosi, meno pazienti, portandoci magari a scegliere – ad esempio – di essere più accomodanti con i figli, ottenendo solo di rinviare alla prossima volta, l’esplosione di una richiesta che, accontentata una volta, vuole esserlo nuovamente.
L’essenza del peccato è proprio questa: una schiavitù, con l’apparente illusione della libertà, magari, della trasgressione a regole imposte da altri. Che, però ci lascia con l’amaro in bocca. Come capita a Gertrude, che, assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così poco sugo, in paragone del desiderio che n’aveva avuto (Promessi sposi, capitolo X). Il peccato è – sempre – in debito col desiderio che lo ha fatto scaturire: l’aspettativa è alle stelle, ma il risultato delude. Il male è banale, è il bene ad essere creativo: per questo, rischia di trasformarsi in un’ascesa di depravazione; come le ciliegie, una trasgressione tira l’altra perché, una dopo l’altra, nessuna ci dà abbastanza sugo, in confronto al desiderio da cui era nata.
Libera nos a malo è l’invocazione che fluisce dal nostro cuore, nella preghiera del Pater. Di fronte al male che ci sovrasta ed annichilisce, rischiando di renderci suoi schiavi, non ci resta che l’abbandono fiducioso, nell’abbraccio del Padre, che tutto conosce, di noi e del nostro cuore.

È questa la stessa invocazione che sgorga anche dal cuore di quei dieci lebbrosi che, per la loro condizione, vivevano ai margini della società dell’epoca: emarginati ed isolati, era loro precluso anche il minimo rapporto umano. Erano come uomini “svuotati dentro”, perché privi di quel calore umano che ci fa assaporare la vita.
Quel rabbi di Galilea compare a loro come un sogno evanescente, come una promessa di salvezza. lo invocano quindi a gran voce, implorandone l’aiuto, pur mantenendosi a debita distanza, ben consapevoli della propria impurità per il culto e non volendo mettere a repentaglio quella del Nazareno.
Con sollecitudine, quasi con urgenza (appena li vide), Gesù si fa loro incontro e li invia, aggiungendo una raccomandazione: «Andate a presentarvi ai sacerdoti» (Lc 17,14). Spettava, infatti, ai sacerdoti, attestare l’avvenuta guarigione, consentendo così che l’ex-lebbroso potesse essere riammesso all’interno della comunità religiosa (e civile) ebraica.
Qui tocchiamo un tasto dolente. La lebbra, a livello mondiale, è pressoché estinta, almeno nei paesi più industrializzati; resistono ancora focolai locali in alcuni paesi in via di sviluppo (prevalentemente, parliamo di India e Brasile, per numero di casi). Ma quante lebbre persistono ancora, anche tra di noi, nelle nostre città, cioè, quanti motivi di esclusione?
Mi torna alla mente il foglietto giallo del brigante Jean Valjean, nell’indimenticabile romanzo di Victor Hugo: come può un forzato diventare – davvero – un ex forzato se sarà perennemente riconosciuto per quello che è stato? Ed è così, molto spesso, non solo con gli ex carcerati. Quanto è difficile imparare a fare come Dio che, perdonati i peccati, non torna più sull’argomento e prepara – ogni volta – una pagina nuova, affinché ciascuno possa approntare una nuova versione di sé, con più consapevolezza di sé, dei propri limiti, ma anche delle proprie bellezze.
Il brano evangelico non si ferma qui. I lebbrosi – tutti e dieci – sono stati sanati già nel tragitto (c’è un amore del Cristo per la strada che pare trasudare in ogni episodio). Eppure, solo uno torna indietro, per ringraziare l’autore della propria salvezza.

«Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (Lc 17,18)

Questa è l’espressione di stupore di Cristo, che lascia trapelare una sorta di delusione. È inutile negarlo: il suo cuore rimane pur sempre quello di un israelita e vorrebbe davvero poter dare un’impressione migliore dei propri correligionari, che, invece, troppo spesso, paiono incapaci di quelle delicatezze che riescono a fare la differenza.

«Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17,19)

Solo la consapevolezza di essere dei “salvati” fa di noi dei “campioni della gratitudine”, persone, cioè, in grado di guardarsi intorno con un sentimento di rendimento di grazie che si rinnova quotidianamente. Perché la vera liberazione non è solo dalla lebbra, ma anche dalla schiavitù del giudizio altrui e del peccato.
La legge dell’amore, come dono di sé senza riserve, è l’unica davvero liberante, in grado di colmare la sete del nostro cuore. E Cristo non si stanca di indicarci la via della libertà, disposto ad un perdono sempre nuovo, affinché possiamo – ogni volta – riprendere il nostro cammino!

Rif: letture festive ambrosiane nella VI Domenica dopo l’Epifania (Is 56,1-8; Sal 66; Rm 7,14-25a; Lc 17,11-19)


Fonte immagine: squarespace

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