L’hanno intravisto nelle prossimità del Bataclan. Altri giurano d’averlo scovato, nei medesimi istanti, nei pressi di Saint-Denis, altri ancora sono pronti a giurare d’averlo incontrato mentre zigzagava nell’XI arrondissement parigino. Voci che si moltiplicano, a dismisura e contro il buon senso: chi ad Ankara, chi seduto ad un bar di Bruxelles, altri ancora nei pressi della metropolitana londinese. Lui non conferma, nemmeno smentisce, decide di lasciar scritto, a scanso di equivoci: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra» (liturgia della I^ domenica d’Avvento). Parole come onde, ruggiti di burrasche: solo chi c’era per davvero può lasciare scritto ciò che gli occhi hanno raccolto e le parole hanno mancato: non armi bensì fiori, non terrore ma speranza, più trepidazione che angoscia. L’hanno visto, incontrato, toccato: Lui, Dio-in-borghese, ha visto e ha lasciato scritto. Nel nome del Padre e del Figlio, con lo Spirito Santo.
Per un mondo che muore, c’è un mondo che nasce: nonostante le spine, alla resa Dio preferisce sempre la rosa, la farfalla dentro il bruco, la perla nell’ostrica, il fico dentro la gemma. Dio nell’uomo. Un Dio in attesa per un tempo d’attesa: l’Avvento. Il tempo, dunque, della madri e degli agricoltori: solo chi ama sa attendere, solo chi attende dimostra d’amare. Chi attende amando fa le veci dirette di Dio, è Dio per le creature. C’è da crederci che c’era là in mezzo alle burrasche di Parigi, di Gerusalemme, di casa mia: c’era per dire che non c’entrava, c’era per prendere le distanze, c’era per dire che c’era anche lui con noi. Mica soli e dannati ha mai pensato di lasciarci. C’era per guardare in faccia l’Altro: lo smargiasso, lo sbruffone, il pifferaio del Nulla. L’onnipotente confinato nell’impotenza dell’uomo: mai nessun Dio, prima di Lui, s’era ridotto all’impotenza di chiedere permesso per far crescere il mondo. Dio nell’uomo è anche questo: il Dio-muto, silenzioso, discreto. Lui, gomito a gomito con l’altro: “Metti in ordine il mondo senza di Lui. Che te ne fai di un Dio geloso?”. Dio è padre, anche madre: si sposta, lascia fare, decide di far dipendere la sua affidabilità dall’inaffidabilità delle sue creature. Inaffidabili quando s’alleano con Lucifero: homo homini lupus. Affidabilissime quando s’aggrappano a Lui: homo homini Deus. C’era, come sempre c’è stato: nei giorni del lutto e della festa, a Genezareth come sul Golgota, a Dachau come a Calcutta. Dio c’è: non sono io.
Niente paura, anche se la paura, in realtà, fa novanta un po’ ovunque: anche oltre novanta. Ci trova nervosi, frenetici, confusi dentro le nostre case, rattrappiti come tane sotto-terra. Ci stana, ci prende per mano, ci consola e ci porta fuori. Tutti fuori, per alzare lo sguardo, come ai tempi di Abramo e delle stelle da provare a contare: «Risollevatevi, alzate il capo, perchè la vostra liberazione è vicina». Ci sbatte amorevolmente di fuori per farci alzare il capo, che poi, in realtà, è proprio l’opposto: fuori per ficcare il naso dentro la storia di quaggiù, la nostra piccola e indifesa storia quotidiana. Dentro fino al naso per scoprire, in compagnia del suo sguardo, che dentro la miseria c’è anche dell’altro, un qualcosa che miseria-non-è. Proprio dentro, però: non altrove, non fuori, non al di là. No: esattamente dentro, mescolata con la miseria più cupa. Proprio in quei medesimi giorni succederà: «In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra» (Geremia). Dio e Lucifero, L’Avvento e il Bataclan, il germoglio e i mitra, la giustizia e l’orrore. Occorrerebbe essere madri – donne di doglie, travagli e parti – per riuscire a ragionare come Dio. Come i suoi profeti: quelli che ancor oggi, mescolati col fango del terrore, s’ostinano imperterriti a sentire ormai vicinissima quella liberazione che da duemila anni sembra essere in ritardo sulla tabella di marcia. C’è, per dirci che c’è ancora: qualora ne dubitassimo.