Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
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Primo maggio. Da festa politica a festa sociale, contornata dell’abituale corollario di significati etici, morali, talvolta, subdolamente retorici, dal vago retrogusto ipocrita, specie alla constatazione che, ai proclami pomposi, spesso non fanno seguito azioni adeguate.
Festa del lavoro. Che non c’è! Verrebbe – forse banalmente – da commentare così, in tempo di crisi, con la disoccupazione alle stelle, sia per i più giovani che per i meno giovani, con la fatica d’arrivare alla fine del mese, con la necessità di sbarcare il lunario, ognuno come può, pur di far quadrare i conti quando si arriva alla scadenza delle tasse da pagare. Puntuali, quelle sempre, quand’è il loro turno. Al contrario di altre richieste, forse anche più legittime quali servizi erogati, snellimento della burocrazia a fronte di situazioni d’emergenza o tutela dei soggetti di diritto più fragili, all’interno della società. Del resto, vedeva lungo, ma giusto, Christopher Bullock, quando disse che «è impossibile essere sicuri di qualcosa, se non della morte e delle tasse».
Di fronte ad una situazione complessiva oggettivamente differente rispetto al passato, diventa indubbia la necessità di aprirsi alle nuove sfide che essa, più che proporre, impone. Precarietà del lavoro. Mobilità.Tutele sociali spesso prossime allo zero. In una parola, il rischio concreto è che il lavoro inglobi l’uomo, perdendo il proprio significato perché, al di fuori dell’uomo, esso non ha né senso né esistenza.
In realtà, se vogliamo essere sinceri, il lavoro c’è sempre stato e non cesserà mai di esistere. Perché non potrebbe essere diversamente. Dalla sua origine, la pulsione dell’uomo ad uscire da sé, a modellare la realtà, affinché assumesse forme più congeniali alle sue necessità, lo ha perennemente spinto a plasmare, modificare, rielaborare ogni elemento che gli capitasse a tiro.
Forse, quindi, prima di rivendicazioni sindacali, è il caso di elaborare rivendicazioni culturali, che ci conducano ad accorgerci del lavoro che c’è, ma non si vede; del lavoro che è fatto, ma non è valorizzato; di quelle mansioni che sono svolte, senza clamore, con puntiglio e passione, spesso in modo inversamente proporzionale al guadagno che riescono a garantire.
Mi limito a due immagini, che dovrebbero tuttavia servire ad esempio, a nome di tutti gli esclusi. La prima categoria su cui vorrei porre l’attenzione è quella dei lavoratori dello spettacolo. Sotto questo nome, si riuniscono decine di figure professionali, che sfuggono – per lo più – ai fruitori abituali di esibizioni artistiche. Spontaneamente, siamo portati a pensare al mondo dello spettacolo come quello in cui lavorano cantanti blasonati, showgirl affascinanti, presentatori carismatici, eventualmente giornalisti appassionati. Difficilmente, i primi che vengono alla nostra mente sono, ad esempio, gli artisti circensi, girovaghi e dal fascino bohémien, che però non vorremmo mai appiccicato addosso a nessuno dei nostri figli. Oppure ancora, si potrebbe pensare a tutte quelle maestranze tecniche che fanno da corollario a qualunque spettacolo, senza le quali non potremmo gustarci un bel concerto, un musical, oppure una commedia teatrale: sono elettricisti, fonici, luciai, facchini, suggeritori, costumisti, scenografi. Quelli, per capirci, il cui nome, di solito, è in fondo alla lista, quando i film vincono qualche premio. Ma, senza i quali, forse, quel film non avrebbe vinto alcun premio. Un piccolo popolo che, spesso, lavora proprio quando noi facciamo festa e ci consente di festeggiare, rinunciando alla propria, di festa.

Cambiando di molto prospettiva, fece riflettere, qualche tempo fa, uno spot in cui si creò un falso annuncio di lavoro, a cui sarebbe seguito colloquio. Le condizioni richieste apparivano assolutamente disumane, decisamente in contrasto con qualunque statuto dei lavoratori: 24 ore su 24, nessun pasto da seduti, sempre disponibili, poco sonno, nessuna retribuzione. Eppure, il lavoro descritto come disumano, che nessuno, stando a quel colloquio di lavoro, parrebbe disposto ad accettare (neppure se pagato!) è invece il mestiere, gratuito, più antico del mondo – e senza il quale il mondo stesso si estinguerebbe -. Si tratta delle mamme, naturalmente!

Due facce, un’unica medaglia. Talvolta, il lavoro più indispensabile per la buona riuscita di questa fantastica storia che è la vita è proprio quello nascosto ai nostri occhi!


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