Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Questa domenica, per ogni ambrosiano, segna sempre una svolta. Certa come la morte e le tasse (cit. Benjamin Franklin), la solennità di Cristo Re porta sempre, matematicamente, all’esclamazione: “Di già? Settimana prossima inizia l’Avvento!”.
Eh sì, con un anticipo di due settimane sul resto della Chiesa universale, o: meglio, sulla chiesa latina di rito romano, la chiesa ambrosiana si appresta ad entrare in uno dei principali tempi forti dell’anno liturgico, che coincide, per altro, con il “cambio” di ciclo di letture (in questo caso, si passa dal ciclo, o anno, “A”, al “B”).

La prima lettura ci fa incontrare con un re, Davide, preoccupato che il Signore potesse avere un luogo di dimora. Guardatosi intorno, infatti, gli è inevitabile notare la differenza tra la propria abitazione (in legno di cedro, che è un legname pregiato), mentre l’Arca dell’Alleanza si trovava ancora sotto una tenda. Il profeta Natan, dopo un primo assenso, riporta un diniego.
Il motivo di questa negazione al progetto di un tempio per Dio è ricondotto allo spargimento di sangue ed alle lotte interne alla famiglia del re, per la conquista del potere, che vede morire Amnon, Assalonne, Chiliab ed infine Adonia. Alla fine, sarà Salomone, figlio dell’unione con Bersabea a prendere il potere: edifica un grandioso tempio a Dio, ma nel 587 a.C., con la conquista da parte dei Babilonesi, si conclude la dinastia dei re di Giuda.
Tuttavia, sulla scia della promessa “il tuo trono sarà reso stabile per sempre” (2Sam 7, 17), ha inizio l’attesa messianica di un Inviato da parte di Dio, nell’ambiguità di un nuovo re che conquisti il mondo in nome di Jahvè e la consapevolezza che Dio stesso avrebbe regnato su Israele, perché la Sua Parola rimane fedele.
Del resto, anche la profezia di Isaia fa riferimento al “tronco di Iesse” (Iesse era il padre di Davide), prefigurandolo come prediletto da Dio, capace di agire secondo giustizia, rispecchiandone la volontà:

«1 Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
2 Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
spirito di sapienza e di intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore.
3 Si compiacerà del timore del Signore.
Non giudicherà secondo le apparenze
e non prenderà decisioni per sentito dire;
4 ma giudicherà con giustizia i miseri
e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese.
La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento;
con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.
5 Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia,
cintura dei suoi fianchi la fedeltà» (Is 11, 1-5)

L’attesa messianica ha dunque caratterizzato (e, tutt’ora, caratterizza) il popolo d’Israele. Un’attesa che rispecchia un desiderio di giustizia, di equità, di ritrovata dignità, per un popolo tante volte oppresso e finito sotto il calcagno del conquistatore di turno.
Messia. Questo nome accede la fantasia, risveglia l’attesa, fa sentire già il profumo del riscatto, di chi, finalmente, possa sentirsi autorizzato a rialzare la testa dalla polvere e dal fango, in cui è stato precipitato.
La domanda è: davvero si esprime in questo modo la regalità di Dio?

Il Vangelo di Giovanni pare introdurre una nuova prospettiva. Siamo nel pretorio. Gli accusatori ebraici sono rimasti fuori, per non contaminarsi, in vista della Pasqua. Hanno consegnato Gesù, perché fosse messo a morte dai Romani, probabilmente spaventati di farlo in prima persona, per via dell’enorme seguito che il rabbi di Galilea aveva raccolto, durante la sua predicazione itinerante.
Pilato e Gesù si incontrano, quindi, in un serrato faccia a faccia. Pilato sembra più incuriosito che persuaso, rispetto a questo insolito fardello, di cui ha accettato l’incarico. Lo testimonia la prima sua domanda: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?» (Gv 18,35); è quanto meno particolare e degno di nota che chi è definito “re” sia consegnato dalla sua stessa gente. Ora, noi abbiamo, forse, nella mente, l’esempio storico della Rivoluzione Francese, oppure della “Gloriosa Rivoluzione” inglese, ma nulla di tutto ciò poteva abitare la mente d’un romano del I secolo. Ecco perché domanda “Che hai fatto?”, la domanda più spontanea e naturale, di fronte ad un avvenimento che, altrimenti, risulterebbe controverso: quasi a dirgli: «se c’è dell’astio nei tuoi riguardi, devi pur averla combinata grossa, altrimenti, non me lo spiego!».
«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36) è la precisazione fondamentale, per poter comprendere, almeno in parte la regalità di Cristo. Una regalità passata sotto silenzio: un bambino nato in Giudea, in mezzo al trambusto di un censimento imperiale, un ragazzo cresciuto a Nazareth di Galilea, diventato uomo, continuando il mestiere di carpentiere, nella bottega paterna. Trent’anni, insomma, prima di varcare davvero la soglia di casa, stupendo tutti, per la sua sapienza, dall’età di dodici anni, suscitando contese nel potere religioso costituito, in particolare perché metteva in discussione l’intangibilità del sabato, per come era concepito dai dottori della legge.

Anche stavolta, il suggerimento è di un cambio di prospettiva. Alla tentazione di guardare a Dio come ad un super-uomo che possa risolvere i nostri problemi e le nostre inadeguatezze, Gesù ci mostra l’amore per la Verità di un Re che si fa servo, buon pastore e padre. Che si dimentica di ogni privilegio, andando in fila con i peccatori, per il battesimo di Giovanni. Che si abbassa fino al più umile degli uomini, parla con le donne e coi pagani, persino con le donne pagane, suscitando lo scandalo dei suoi contemporanei. Eppure, in tutto questo, rimane immacolato dal peccato, per essere l’unico Giusto condannato al posto dei peccatori. Per dare ai peccatori (cioè: a ciascuno di noi) la possibilità di diventare figli di Dio (figli, nel Figlio), fino ad entrare in comunione con la stessa Trinità (è questa la prospettiva che abbiamo celebrato, ricordato santi e defunti, pochi giorni fa). Davvero, con la liturgia, possiamo dire che questo è uno «scambio di doni mirabile»: il Re dell’Universo, facendosi carne, nel mistero del Natale, accoglie la redenzione del mondo intero, per mezzo del suo sangue versato. Lungi da una gloria che si manifesta nello sfarzo di vesti ed edifici, la gloria che ci fa conoscere Cristo è quella di Chi, offre tutto Se stesso, per amore di chi ama. In Cristo, quindi, la regalità assume un nuovo significato: l’Onnipotente si fa impotenza assoluta, la forza è quella, inerme, di un bimbo in fasce, che ci tende le braccia e s’offre a noi, senza rubarci la libertà.
Ci rimane la certezza, che ci viene dai Santi, che  scegliere di consegnarci a quest’amore regale «non toglie nulla, ma dona tutto» (Benedetto XVI).  

 

Rif: letture festive ambrosiane, nella Solennità di Cristo Re dell’Universo


Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone e Teresa Ciccolini

Fonte immagine: Active for life

 

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