Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Si parla spesso di “cultura dell’accoglienza”. Se c’è un posto dove dovremmo impararla, è l’Africa: sarebbero capaci di togliersi di bocca l’ultimo pezzo di pane, pur di essere accoglienti verso un ospite. Hanno l’acume di profumare la capanna con fiori secchi, anche se non sanno come tirare sera con le provviste di cibo, nella loro casupola, sotto alle banane che coltivano.
La cultura africana è ricchissima e piena di sfumature, anche se non tutto è condivisibile. Parlo, di tante credenze ancestrali o superstiziose, che rischiano di causare problemi e disagi, quando non ad episodi  di violenza e discriminazione, come, ad esempio, nei confronti degli albini, le cui parti del corpo sono ricercatissime come amuleti.
Eppure, se c’è una cosa che, ricordo, rimase vivamente impressa in me, quando raggiunsi l’Africa più nera, fu proprio questa: l’arte e la passione di raccontare, che accomunava proprio tutti (grandi e piccini, giovani e anziani). Tutti si avvicinavano, chiedendo di poter parlare. Solo parlare, per raccontare di sé, del proprio villaggio, del proprio popolo, del proprio Paese. Con speranza, carica d’aspettativa. Possibile che cercassero me, della stirpe dell’uomo bianco, che ben poco di bene aveva fatto in questi luoghi aspri e selvaggi, di terra rossa, di pista per le auto e di bananeti senza fine? Forse avevano dimenticato. O, forse, cercavano di dare una seconda opportunità all’umuzungu (uomo bianco).
Siamo diversi, non uguali. Proprio qui, risiede la bellezza!
Ognuno ha delle radici, da conservare. Con cui fare i conti eventualmente, ma mai da abbandonare. Anche e soprattutto i migranti, uomini, donne e bambini che hanno dovuto rinunciare alle certezze in patria, per un viaggio oltremare, oltre oceano. In ogni caso: oltre confine, lontano dai rassicuranti racconti e sapori familiari, che sanno di casa, nel bene e nel male. Ce lo racconta Igiaba Scego (di origine somala): pur essendo nata in Italia, avendo studiato e lavorando tutt’ora a Roma e amando senza remore il Bel Paese, mantiene legami con le proprie radici, ricorda le “fiabe splatter” raccontate dalla madre, che fanno parte della tradizione somala.
Ed è giusto sia così, perché ogni uomo porta sulle proprie spalle le tradizioni di chi lo ha preceduto.
Ho un ricordo speciale, di quelli che non puoi condividere sui social, né Facebook né Instagram. È l’odore dei vari cibi che si respirava lungo il cardo od il decumano di Expo 2015: c’erano le spezie orientali e quelle del vicino Oriente, lo zenzero e il cardamomo, la cannella, il curry e il wasabi si mescolavano con l’odore di patatine fritte, di hamburger con le alghe e di riso cucinato in ogni modo possibile ed immaginabile. Un giro del mondo, in pochi metri. Unicamente, con l’olfatto. Muta testimonianza dell’ingente ricchezza di espressione dell’animo umano.

La questione dei migranti si fa oggi, più che mai, pressante. E la prima domanda su cui è necessario riflettere è senz’altro il valore della vita umana. Dati alla mano, la percentuale dei morti, durante le traversate, è in vertiginoso aumento, proprio a motivo dell’aumento dei salvataggi in mare. Un paradosso? Non proprio. Pare, infatti, che, in un circolo vizioso, la certezza che qualcuno  verrà a prenderli, renda arditi non solo i migranti, ma anche scafisti senza scrupoli, che non si premurano di spendere per un mezzo che arrivi alla costa più vicina, ma si accontentano di uno che galleggi per brevi tratti, nella convinzione che non serva percorrerne di più. Il risultato è, ahimè, che, oltre ad aumentare il flusso di migranti, aumentano l’asprezza del viaggio ed il numero dei morti, insieme con il guadagno delle organizzazioni che su ciò lucrano (sia quelle malavitose e criminali che si occupano del traffico di esseri umani, ma anche, purtroppo di OnG che, grazie a questa situazione, hanno visto un forte incremento delle proprie entrate).
«Salvare l’Africa con l’Africa» era lo slogan di Daniele Comboni, uno che questo continente lo ha bazzicato parecchio e a cui è difficile riuscire a dare del razzista. L’Africa è l’esempio più eclatante di continente che possiede ricchezze e risorse, economiche e culturali. Ha una storia millenaria, capacità di produrre arte di ogni tipo (visiva, strumentale, canora), oltre a possedere, in quantità, ricchi giacimenti minerari ed energetici. Cosa manca, allora?
La possibilità di camminare con le proprie gambe. Che passa, naturalmente ed in primo luogo, dall’affrancarsi sia dallo sfruttamento economico occidentale, ma anche dalla corruzione e dai soprusi dei politici e dei potenti locali.
È questo l’unico modo con il quale l’Africa potrà sprigionare la propria reale potenzialità e creare nuove occasioni di sviluppo, non solo economico, ma anche umano.
Lo stesso, probabilmente, si potrebbe dire anche per altre località del mondo, oppresse dal sottosviluppo di un mercantilismo economico che, spesso, lede la dignità umana e non promuove la bellezza e le risorse locali.
Difficile, impegnativo, dispendioso e, soprattutto, progettabile solo sul lungo periodo. Eppure, è ormai assodato che sia proprio questo l’unico modo per riuscire (almeno) a sperare nella possibilità di una soluzione a quest’annoso problema, che non sia solo ideologica e politicamente corretta, ma affronti a viso aperto l’asprezza della realtà dei fatti, così come sono. 

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Fonti
“La mia casa è dove sono”, Igiaba Scego
Cittanuova
Tempi.it: I migranti separati dalle opinioni, Rodolfo Casadei
Subito dal web: non sono poveri e non scappano dalla guerra o dalla fame

 

Per approfondire:
Lettera 43: L’immigrazione di massa e l’ideologia del gender sono le armi del capitale, di Diego Fusaro

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