ValentinoRossi

Due storie dall’Oriente: a tenerle unite solo la mia provocazione. Il primo stava rientrando dall’ennesimo bagno di folla che, nelle Filippine, l’aveva acclamato suo pastore. Durante il volo di rientro, papa Francesco imbarazzò la stampa: se uno «dice una parolaccia contro mia mamma, si aspetti un pugno». L’altro, Valentino Rossi da Tavullia, nella pista di Sepang, sempre in Oriente, ha reso visibile in mondovisione quel preavviso francescano, preferendo al pugno una meno evidente pedata: a farne le spese, lo scolaretto Marc Marquez, quasi certamente a libro paga di Lorenzo, per il “patto di Andorra”. Tu provocami pure, ma metti anche in conto che io possa reagire: a 300 km/h non sempre la mente è così lucida da saper compatire un bambino-monello che si diverte a tagliarti la strada e a viaggiare, apposta, un secondo più lento al giro. I santi esistono: guai a dire a papa Francesco il contrario. Anche i santi, però, hanno perduto la pazienza a fasi alterne: la loro destrezza fu quella, dopo ogni caduta di stile, di chiedere scusa e ripartire alla caccia del titolo della santità. Qualcuno ha vinto.
Valentino Rossi lo capisco, il che non significa che io giustifichi i calci-in-culo e nemmeno avvalli la dimensione della vendetta, della rivalsa. Chi in questi giorni sta cercando di farlo ardere con la benzina del moralismo, o è uno dei 56milioni di piloti-professionisti che abitano nei sofà d’Italia, oppure è solo uno che arde d’invidia nei confronti di chi, armato di un talento sopraffine che ha perfezionato con un’applicazione immane, a 36 anni è ancora lì nell’arena, a combattere contro chi dieci anni fa gli chiedeva foto e autografo. Non è mai bello vedere gesta come quelle di domenica scorsa a Sepang, anche se la meraviglia non avrebbe così tanto senso d’esistere visto che lo sport è pieno zeppo di biscotti e di sportellate, di spintoni e di trucchi del mestiere: ai suoi protagonisti non si chiede la santità d’animo (quella chiediamola prima a noi preti), ma il massimo della sportività possibile. Siccome, poi, a quelle velocità rimangono uomini in tutto e per tutto, val bene di conteggiare sempre l’x-factor dell’umano, assieme a quello del genio: “Tu continui a tagliarmi la strada? Metti in conto che io mi possa stancare”. C’è anche chi non ragiona così: chapeau!
Fossi Valentino, all’ultima gara di Valencia ci andrei di corsa, con un piede solo (così Marquez è più tranquillo): chi ha già in tasca 9 titoli mondiali, alla storia non ha più nulla da dimostrare. E’ già così ingombrante, che la sola presenza infastidisce i pretendenti al trono. Sulla griglia di partenza, poi, parta pure dall’ultima fila: in fin dei conti, a vincere partendo dalla prima è troppo scontato per un eroe sportivo come lui. Poi, appena il tempo di scattare, si spostino tutti coloro che non hanno più nulla da chiedere a quell’ultima gara: facciano passare il “Dottore”, che raggiunga il prima possibile i suoi pazienti lassù, sulle prime file. E, sportivamente, curi le loro infermità d’animo e di gloria con una delle sue operazioni migliori, che qui chiamano manovre: circa queste sue capacità, anche il suo fans Marquez nulla avrebbe da ridire. Per poi andarsi a prendere quel decimo titolo che, messo in saccoccia, varrebbe la risposta più bella ai detrattori di questi giorni. #iostoconVale e il motivo è duplice: ha il torto grandissimo d’essere il più forte, d’aver fatto una cazzata degna del miglior Rossi, d’essere rimasto sempre lui. Che poi ci sia qualcuno che, per giudicare una reazione prodotta a 350km/h (velocità superiore a quella di decollo di un jet) usa il metro di misura che si usa nella strada sotto casa, allora ha ancora più ragione lo stare dalla parte di Valentino: aiuta a calibrare le misure di valutazione. Domenica perde? Per me ha già vinto: l’avvoltoio che mangia un leone è così stupido da pensarsi leone. Invece il leone rimane leone, l’avvoltoio un avvoltoio.
Quasi confuso con una carogna, non il più bell’animale.

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