Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

NonSoloSportRace2015

Il coraggio e la paura. Nel 1976, durante il Gran Premio del Giappone di Formula Uno, sul circuito si abbatte una violentissima bufera. Il pilota austriaco Niki Lauda ha solo tre punti di vantaggio sul rivale inglese James Hunt: quella gara deciderà il mondiale. Dopo due soli giri dal via, Lauda decide di ritirarsi: Hunt prosegue, strappa il podio in un finale a dir poco convulso e vince il suo primo e unico titolo iridato. A farne le spese è Niki Lauda. Lo staff della sua scuderia vuole dare la colpa alla centralina dell’auto. Lauda s’impone nel volere che si racconti la verità: correre in quelle condizioni era molto pericoloso. “Avevo paura” fu la sua diagnosi sincera del ritiro, del mondiale sfumato.
C’è qualcosa di epico e al tempo stesso di paradossale nello sport: da una parte il sogno omerico di scoprire un limite e tentare in tutti i modi d’infrangerlo, migliorandosi. Dall’altra, quasi in antitesi, la sincerità di chi non teme l’ammissione della sua paura. Ammettere la paura è mostrare di averla cucita addosso la stoffa del campione: tenerla nascosta, quella paura, è correre il rischio di non diventare mai quel campione che magari era proprio nelle tue possibilità. Perchè tutti, nel fondo del cuore, sentono crescere la pianticella della paura: il fuoriclasse e il comprimario, il genio e lo zuccone, l’astronauta e il verduriere. Il campione olimpico e il podista della domenica. Nel corso di una competizione capita che un atleta provi paura: ne senta addosso i suoi passi, ne tema le prime avvisaglie, tremi nel trovarsela accanto. Oltre a quella paura, qualcuno dimostrerà di avere anche coraggio. Taluni, come Lauda nel ’76, di averne tanto. Non è la mancanza di paura: è confidarla, per poi sentirsi più forti.
Certe sere la paura diventa una miccia che fa detonare una polveriera, che rende l’uomo pienamente uomo. E’ la paura della morte, un vecchio tema tipico di tutta la letteratura mondiale, a sparare il fatidico colpo di pistola per la Nonsolosport race 2015 di stasera, in Prato della Valle a Padova. Una serata lunga 10 km, dove lo sport, correndo gomito a gomito con la paura, scopre di diventare beneficenza, una sorta di solidarietà veloce: la paura della malattia da una parte, il coraggio di ammetterlo e di sfidarla dall’altra. “Avere paura” e non trovare nessun motivo per tenerla nascosta questa paura. Anzi, trovare un motivo apparentemente folle: farla diventare la scintilla che accende il fuoco di una serata di festa. Ecco perchè migliaia di persone festanti si allacceranno gli scarpini e correranno: per trovare il coraggio di farsi questa confidenza e sentirsi più forte della paura. Ogni anno in numero sempre maggiore, perchè ogni anno crescono esponenzialmente i motivi per avere paura. Anche quelli per trovare il coraggio di confidarsela e, quindi, di vincerla.
Chi l’ha ideata, le ha scelto la collocazione migliore nel calendario: sempre la prima domenica di settembre. E’ il mese che il poeta D’annunzio dipinse con una tinta d’incomparabile magia: «Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare». L’andare: per passare dalla terra della paura a quella del coraggio, la vera migrazione alla quale ciascuno si vede costretto. L’andare parte sempre da là: dai bassifondi della malattia, dalla tentazione di mollare la presa. Dalla paura di non farcela. Nel settore sportivo, “Nonsolosport” è un brand, ma anche una filosofia: non solo sport. Una filosofia divenuta nel tempo una “race”, un assalto. Una sorta di tifo per quel bambino, cuor di leone, che nell’arena di un reparto oncologico sta sudando l’inverosimile per tenere fede alla promessa, quella fatta al cancro: “Non ce la farai, bastardo”. Esserci, per poter correre fianco a fianco. Perchè chi trova il coraggio di confidarsi la paura scopre d’essere già più forte della paura stessa. D’essere un uomo, nella sua accezione più bella.

(da Il Mattino di Padova, 6 settembre 2015)

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