Lo ammetto, tra tutte le letture della liturgia di Pasqua, ce n’è una che mi è sempre stata un po’ indigesta. Nonostante gli anni di esegesi biblica, che mi hanno aiutato a scendere in profondità in ogni singola parola, ad ogni ascolto è come imbattersi in un macigno posato senza delicatezza sullo stomaco. È uno dei passi più controversi e maggiormente necessari di spiegazione, perché il rischio di fraintendimento è in agguato proprio dietro l’angolo. È forte la tentazione di fare a tutti i costi l’avvocato difensore del testo, ma forse è meglio immergersi in qualche spiegazione di base e lasciarsi poi interrogare senza timori, poiché una fede che non si pone mai domande è come un albero sterile che non porta frutti.
“Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo.” (Genesi 22,1)
Ahia, lo sentite anche voi questo campanellino d’allarme, vero? Quando, nel testo biblico, Dio decide di mettere alla prova qualcuno, questo significa principalmente due cose: peripezie all’orizzonte per i protagonisti e lieto fine che ripaga di tutte le avventure vissute.
“Prendi tuo figlio, l’unico tuo, colui che ami, Isacco, vai nel territorio di Moria e là offrilo in olocausto.” (Genesi 22,2)
E tante grazie! Non neghiamolo, qui è impossibile trattenere una smorfia di stupore misto ad incredulità. Impossibile non avere un sussulto di indignazione verso questo Dio che ci sembra crudele e beffardo: ha il coraggio di sottolineare che Isacco è unico ed amato – è il figlio della promessa! – e nonostante questo ne domanda il sacrificio. Cosa avrà provato Abramo? Del suo stato interiore non sappiamo nulla, leggiamo solo che obbedisce e nasconde a tutti la verità, ai servi ed al figlio, perché è troppo dolorosa da condividere: ma siamo sicuri che sia davvero così?
Il finale di questa storia lo conosciamo tutti. Dio interviene all’ultimo momento a fermare la mano di Abramo, Isacco è sostituito con un ariete che si trovava giusto nei paraggi, ad Abramo è donata una benedizione coi fiocchi, di quelle da incorniciare a perenne memoria.
Il (mai avvenuto)-sacrificio di Isacco è uno di quei passi che, per quante volte lo si legga, ci fa sembrare il Dio dell’Antico Testamento come una divinità capricciosa, che gioca con le vicende degli esseri umani, incurante del dolore che provoca ad essi, anche se ha già preparato per loro un lieto fine. Inoltre si rischia di cadere in uno dei più grandi equivoci della fede: pensare che per barattare il favore divino sia necessario sacrificare qualcosa che per noi è prezioso ed amato.
Il sacrificio di Isacco è una pietra d’inciampo. Una sorta di dosso che ci induce a rallentare lungo la strada della fede. Un segnale di stop prima di un incrocio di vitale importanza. Ci interroga e ci chiede a bruciapelo: qual è la tua immagine di Dio? Cosa pensi che voglia fare della tua vita? Cosa pensi di dover fare, perché lui ti ami?
Se ci costruiamo l’immagine di un Dio che ci tratta come marionette, ci sentiremo per tutta la vita appesi a dei fili su cui non possiamo sindacare, da accettare con sconfitta rassegnazione. Se ci costruiamo l’immagine di un Dio-marionetta, che baratta favoritismi come fossero noccioline, passeremo il tempo della nostra vita a calcolare scambi, soppesare sentimenti, finendo comunque insoddisfatti perché le cose non saranno come vorremmo.
Abramo invece non fa nulla di tutto questo. Rifiuta l’idea di un Dio crudele, assetato di vite umane: “Il Signore provvederà da sé per l’agnello” (Genesi 22,8) è la sua scommessa in cui risuona già un eco di vittoria. Non vede zavorre di cui essere succube, non usa il bilancino di precisione per valutare pro e contro. Sceglie la strada dell’amore, intuendo che quel Dio a cui si era affidato aveva già scommesso su di lui, dandolo per vincente.