Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

nonno

Sono cresciuto all’ombra di due modelli di uomo: il nonno e il padre. Mio nonno combatté la guerra d’Africa e d’Albania; tornato, lavorò alle dipendenze del comune. Mio padre lavorò per quasi quarant’anni a vivisezionare i motori: ad un certo punto fu un padre disoccupato, ma non sconfitto. Due modelli maschili e due femminili: la nonna, donna elegantissima, per anni tenne le sue mani dentro le acque delle risaie vercellesi facendo la “mondina” lontano da casa: c’erano le sorelle da sfamare. Mia madre, per quasi quarant’anni impiegata a far quadrare i conti in un’azienda, nello sguardo ha la fierezza delle leonesse, nonostante sia sovrappeso: per talune donne i problemi sono altri.
Il problema è sempre stato il quinto di casa mia: mio fratello. A sette anni ha imparato a maneggiare i pannolini, appena dopo l’età in cui i pannolini te li indossano altri. Divenuto infermo il nonno, non volle che lo si lasciasse al ricovero. Insistette per averlo a casa e s’ingegnò infermiere a tempo pieno assieme alla nonna. Per otto anni gli cambiò i pannolini, aiutava la nonna a lavarlo, all’occorrenza lo imboccava e gli parlava. Fece pochissime vacanze e dormì sempre a casa loro. Morto il nonno, il grosso della sua eredità – un vecchio rudere sui monti con tre fazzoletti di terra – rimase a me, che il nonno lo salutavo una volta la settimana. Mio fratello si tenne l’altro guadagno di quegli anni, una vasta eredità d’amore appreso e donato: «L’essenziale è che da qualche parte rimanga ciò di cui siamo vissuti, le tradizioni, la festa di famiglia, la casa dei ricordi. L’essenziale è vivere per ritornare», scrisse Antoine de Saint-Exupéry. Mica s’arrabbiò, anzi. Cresciuto a vangare e rivangare i suoi sogni, scoprì d’avere un’altra eredità addosso: quel cognome che, grazie a me, in certi ambienti lo ostacola più che aiutarlo. Nemmeno questo sembra essere un problema, però: dalle mie parti c’è gente che, con le pietre scartate, innalza abitazioni mozzafiato. E poi prova immenso piacere ad abitarle più che a venderle: il futuro sarà un ritorno.
Oggi quel ragazzo è felice: non c’è spettacolo più bello di vedere un uomo fiero del lavoro che compie, fosse anche il più umile. Io, invece, più che felice sono tormentato. Sento che tutti parlano d’accoglienza e io non ne sono capace. O meglio: vivendo all’ombra di mio fratello, intuisco che per me è facile amare il lontano come ho fatto per anni; più difficile accudire il nonno a casa, come non ho fatto per anni. Tormentato, come san Paolo, per i miei peccati e per quel pugno di poveri che ho addosso: non riesco a capire se li sto servendo o se mi sto servendo di loro. E questo, di mente e di animo, è un’angoscia. Non mi sento in colpa se certi discorsi in questi giorni non mi convincono. Il Vangelo, al netto di tutto, è chiaro: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Dove quell’avverbio – «come» – è un metro di misura e un campanello d’allarme. Che è lo stesso di dire: “Come puoi pretendere di amare gli altri se non ami te stesso?”. Non è egoismo: è forse la vera misura di un amore che, se autentico, riesce a spingere fino al sacrificio. Prima me e ciò che a me è più vicino, che è anche il più ostico da amare. Poi, e sarà spontaneo, gli altri. I più poveri dopo di me.
Mi risulta difficile, da prete, parlare di accoglienza – “micro” e “macro” – se poi incontro un mio confratello sulle scale della Curia e non ci salutiamo. Se, in Diocesi, tra realtà diverse di chiesa ci guardiamo di bieco. Nessuno ci accrediterà fiducia per il solo fatto d’essere preti: quale uomo potrà credere all’Amore che narriamo se prima non ne avrà percepito un barlume nella nostra vita? Tra la micro e la macro-accoglienza io sono ancora alla semplice accoglienza: alla perfezione dei discorsi ho sempre preferito la verità di quel poco che si riesce a vivere.
 
(da Il Mattino di Padova, 3 maggio 2015)

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