Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Appartengo al novero di quei quattro miliardi di persone che, seppure solo a pezzi, ha seguito dal cellulare il funerale della Regina Elisabetta. Non è stato solamente un funerale ma una lunghissima meditazione, di oltre dieci giorni, sul mistero della morte umana. A colpirmi è stata l’immagine di quella bara che, dal Nord al Sud dell’Inghilterra, ha attraversato l’intera nazione della quale, per oltre settant’anni, è stata l’immagine della solidità. Mentre la osservavo, ripensavo a quando, da bambino, ho vissuto in diretta qualche lutto: è iniziata lì l’avversione per le camere ardenti. Allora il defunto lo si teneva in casa: i bambini, anche se piccoli, avevano l’occasione d’imparare il calendario della vita, di chieder perchè uno muoia, di vedere le lacrime scendere sulle guance di chi, magari, sempre lo si vedeva compunto, composto, ineccepibile. Nulla come la camera ardente mi richiama la mancanza di cuore: è una sorta di “zona neutra” tra l’eternità che ci insospettisce e il nulla che ci tenta, devastandoci. Vedere il volto di un defunto è vedere, in anticipo, la nostra fine: più che un “fare le corna” diventa una sorta di interruzione dal nostro perpetuo gioco. Come tutte le interruzioni, poi, anche la morte provoca un brusco risveglio. Ci riempie mentre, apparentemente, svuota.

Alla regina, alla fine, hanno preparato la camera ardente: il suo ruolo lo richiedeva. Ma mi sono appassionato nell’osservare i volti della gente mentre il feretro transitava per le loro strade: i più avevano gli occhi arrossati come se, in attesa, non avessero fatto altro che sfregarseli all’infinito. Il pianto, i ricordi, la dicevano lunga su chi era per loro. Pareva quasi che, anche soltanto vedendola passare vicino, riconoscessero in quella donna la voce di una madre assente, come quando si avverte in un uomo qualsiasi la voce del proprio padre. La sua morte, ogni morte, lascia ai vivi una notevole materia di riflessione. Non è vero che si porta via tutto: fa delle nostre ossa un mucchietto di ossicini ma non sa proprio che farsene delle nostre risate, dei nostri progetti realizzati, delle nostre storie d’amore: quelli vivranno nel ricordo di chi, meditando sulla questione, fa la sintesi. Vedere la morte vicino ci obbliga, volenti o nolenti, a vedere chi siamo.

La monarchia, coi suoi riti e i suoi simboli confluiti nella liturgia maestosa di Westmister Abbey, ha fatto tutto il resto. Lasciando ai telespettatori come me la sensazione che non si sia trattato di una perdita di tempo assistere al funerale della The Queen. È stato come se, in versione XXL, la vita di ciascuno si fosse rovesciata addosso a noi chiedendo di seguirla. Senza maschere né trucchi.

(da “Specchio” de La Stampa, 25 settembre 2022)

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