Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Nessuno è più morto di chi non attende, ed è anche per questo che il cristiano non muore mai. Anche da morto attende. La dimensione dell’attesa innerva la vita umana e cristiana nelle sue diverse iridescenze: è il frutto della nostra caducità, ma anche la promessa dell’epifania della verità. Per questo il salmista può dire: “L’anima mia attende il Signore, più che le sentinelle l’aurora”, perché sa che al colmo di quell’attesa, alla presenza di quel volto, si diraderà ogni nebbia dal mistero dell’essere e l’uomo potrà contemplare il tutto senza sforzo, nell’orizzonte di un solo sguardo. Attendere non è un verbo statico, porta nella sua stessa radice una tensione, un dinamismo, un nucleo conativo, che lo rendono precipua caratteristica dell’essere. Chi è“ad-tende”, cioè “tende verso”. E se Dio è Colui che sommamente è, è anche colui che sommamente attende. La parabola del padre misericordioso, lungamente e da più parti sviscerata in questo anno, ne costituisce uno dei più brillanti esempi. Non è un mistero verso chi Dio tenda e si protenda, tanto è il suo amore per gli uomini; ed allo stesso modo desidera che il credente tenda verso di Lui. 
La sacra scrittura ci rivela, da parte di Dio verso l’uomo, da parte dell’uomo verso Dio, da parte dell’uomo verso l’uomo, questo universo di tensioni, questa trama di “at-tese”, questo campo rigoglioso di “at-tenzioni”, tanto da esserne serbatoio inesausto. Chi è nella dimensione dell’essere tende ed attende. Attingendo al vasto campo delle letterature, trattando ti attesa, sono significativi due personaggi di un romanzo tedesco del 1930, Giobbe, opera di un ebreo della Galizia austriaca, Joseph Roth. Mendel e Deborah sono marito e moglie; il Signore manda loro, per nulla benestanti, un quarto figlio, Menuchim. Ma questo bambino presenta forti disabilità, non parla, non cammina bene, la sorella lo chiama “idiota”, il dottore annuncia un’epilessia grave. Dinanzi la gravità di questa situazione le due reazioni opposte, le due tensioni, le due religiosità diverse. Mendel non vive alcuna attesa, accetta rassegnato, come una punizione per un’arcana colpa da espiare, la presenza di quel figlio. Recita, dondolandosi avanti e indietro sui piedi, i versi dei salmi, è statico nel fisico, è statico nell’anima, la sua figura non si evolve. Le donne invece, si sa, non sanno covare l’attesa: Deborah è madre dinamica, va dal rabbino per consiglio affrontando un faticoso viaggio, si reca col figlio sulle tombe dei parenti, grida aiuto, prega, fa offerte, tenta tutte le strade per salvare la vita di Menuchim. Rinviamo al lettore il seguito della storia, davvero profonda ed affascinante. Quello che qui ci interessa sono i due ritratti dei coniugi, espressi peraltro entrambi nell’interno della cornice della loro religiosità. Mendel è fermo, Deborah è una trottola di premure. E’ l’amore a muovere Deborah, a non lasciarla consumare in un’attesa che coinciderebbe con la rassegnazione; ella vive l’esercizio dell’attesa fiduciosa ed operante. L’attesa si configura dunque come ascesi, come esercizio d’Amore, come palestra dell’anima. 
A questa luce non mi pare un caso che la vita proceda proprio da un’attesa, e che nessuno possa venire al mondo in quattro e quattr’otto, senza che sia stato atteso, ovvero senza che ci sia stata una tensione ed un’attenzione verso di lui. Se crediamo che la vita proceda da Dio, dobbiamo anche credere che da Lui proceda la sua attenzione per essa, la sua premura per tutti, per ciascuno di noi. Attendere è uno dei verbi cardine del cristianesimo. Un cristiano che non attende è un cristiano sventrato. E ciò perché egli, innestato nel tempo, vive in una dimensione del “già” e del “non ancora”, dimensione che lo limita e lo esorta, che lo consola e lo sprona al tempo stesso. Per questo ripetiamo pregando: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Quando il cristiano prega durante la liturgia con queste parole ha chiara la polivalenza semantica di questa espressione: “Ti attendo, Signore, perché verrai ancora sulla terra, ma anche ti attendo nel mio cuore, perché tu lo renda nuovo ricolmandolo del tuo amore e della tua grazia”. Su questi due binari corre la speranza cristiana, su queste due attese si fonda la nostra certezza, su di esse, ancora, i nostri propositi. Si profilano perciò due attese per il credente, intimamente connesse. Quella del Cristo che “di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi ed i morti” nella sua seconda venuta, e quella del Cristo e del suo regno nella realtà più intima del cuore che si verifica nel processo conversivo. 
Ed adesso, finalmente, occorre legare questa dimensione dell’attesa a quella della speranza, che finora, è rimasta volutamente come una traccia nascosta e solo in qualche punto timidamente svelata. Attendere e sperare sono verbi simbiotici, pare che si compenetrino l’uno nell’altro, del resto ci sarà un motivo se in spagnolo “esperar” significa attendere. Il papa recentemente ha esortato: “Non fatevi rubare la speranza!”, ma la speranza non si sostanzia forse di attese? Parafrasando allora quell’espressione potrei dire: “Cristiano, non farti rubare la dimensione dell’attesa!” Quella fondata sulla “beata speranza”. Quella che non è disprezzo del presente, ma una caparra del futuro.
La Chiesa che è madre e maestra ha compreso, fin dai suoi albori, con grande sensibilità pastorale, quanto sia importante e necessario per il popolo di Dio vivere la dimensione dell’attesa. Il calendario liturgico ne è la prova. La preparazione, anche di diverse settimane, che precede la celebrazione dei momenti più forti, dei nuclei cardine di tutta la liturgia annuale, ci dice quanta cura sia da riservare al tempo dell’attesa. Essa, in generale, non deve mai essere intesa come momento meramente “transitivo”, ingombrante ed ineliminabile distanza dal traguardo, quasi non avesse un valore in sé – chi la pensasse così ha smarrito lo stesso senso della vita -, ma occasione irripetibile di crescita, possibilità di bene operare, tempo prezioso per la semina della speranza, dell’amore, della fede. Nell’era del “tutto e subito” il cristiano è chiamato ancora a farsi modello, ad imporsi come testimone, a rendere visibile al mondo quale attesa lo abiti e quanto feconda possa essere questa dimensione. C’è un elemento importante che, infine, va ben sottolineato, esso costituisce l’essenza stessa dell’attesa cristiana: la gioia. L’attesa cristiana non è un’attesa triste, preoccupata, snervante, ma gioiosa, serena, attiva ed abbandonata al tempo stesso. Sì, è un’attesa abbandonata alla volontà del Signore. Quanta pace sa infondere nel cuore questa attesa, quanta consolazione sa dare! A pensarci è proprio il contrario delle attese terrene, che stancano e, assai spesso, deludono. L’attesa cristiana è un’attesa pasquale perché punta il suo sguardo al passaggio, è vivificante, producente, sempre nuova e mai ristagnante, perché fondata sull’indiscutibilmente Santo, sull’indicibilmente Vero.  
Per imparare il sentiero giusto per vivere l’attesa in modo luminoso possiamo rivolgerci a Maria. Ella, la donna dell’attesa, come la definì poeticamente don Tonino Bello, sa dirci col suo silenzio quale bellezza irrompa nella vita umana quando la dimensione dell’attesa è vissuta come dono e non come castigo, quando si apre il cuore alla grazia santificante, quando il limite, da recinto metafisico, diventa trampolino di lancio nell’Eterno. Da lei, madre e compagna della nostra attesa, vogliamo imparare l’umile gioia, la paziente tenerezza, con cui ha saputo viverla come persona umana e come credente.

 

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