Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
papi

E’ la settimana che ha cambiato il corso della storia, tanto da essere definita “santa” nell’alfabeto del popolo credente. Laddove la santità è la somma di canti festosi e cena imbandita, passione e tradimento, abbandono e sofferenza, attesa e tripudio: l’album fotografico del Vangelo di questi giorni è uno spaccato inimitabile del quotidiano vivere dell’uomo. Tre giorni che saranno un unico grande giorno: è la stranezza della matematica cristiana dove tre significa sempre uno – sin dai primordi della Trinità – e dove uno vale sempre più di novantanove, come nella parabola della pecorella smarrita. Un perfetto incapace in matematica Gesù di Nazareth; eppure in quell’umana bocciatura ancor oggi campeggia il mistero splendido di un Dio che non s’arresta di fronte alle ambiguità e ai tradimenti dell’uomo ma s’inerpica solitario fin sul Calvario della derisione per spalancare la primavera di un sepolcro trovato vuoto. A nulla importa l’abbandono dei discepoli e l’ignominia di Pilato, il tradimento di Giuda e la vigliaccheria di Pietro attorno al fuoco, la derisione dei romani e la spugna imbevuta d’aceto in punto di morte. Con quel poco che gli rimase – un pugno di chiodi e un pezzo di legno – fece riaprire il corso della storia; tanto che da quel giorno imparammo che non si nasce vincitori ma che il vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso.
Una settimana impreziosita dalla tenerezza inedita di un Papa venuto da lontano: dalle baraccopoli di Buenos Aires allo scranno di Pietro, dai tuguri maleodoranti dei quartieri malfamati all’incenso odoroso che s’addensa sotto la cupola del Michelangelo. Un Papa, anzi no: due Papi per la prima settimana “strana” oltrechè “santa” del popolo di Cristo. Uno rintanato nella sua cella d’eremita a pregare, l’altro lanciato nel mondo per stupire; dopo esser rimasti entrambi in ginocchio per tracciare la rotta. Un “tandem di Dio” d’inedita meraviglia: uno – armato di ortodossia e di lungimiranza – nel deserto dell’incredulità ha tracciato una strada; l’altro, forte dell’amabilità e della tenerezza, sarà chiamato a far diventare autostrade i sentieri adocchiati dal suo predecessore. Come Mosè con Giosuè: il primo ha condotto il popolo sul ciglio della Terra Promessa, al secondo (pieno d’inesperienza e di giovinezza) venne chiesto di far entrare il popolo in quella Terra tanto sospirata. Perchè la legge della Scrittura è sempre rimasta quella: quando Dio vuole convertire il mondo, parte sempre dalla periferia della città. Due Papi e un sogno: il volto di Dio.
Lo stupore e la meraviglia saranno l’alfabeto necessario d’ora in poi per afferrare la profezia di quest’uomo che volle chiamarsi Francesco: stupore per leggere nella sua semplicità il volto di un Dio della porta accanto, profezia per non smarrire un frammento dei suoi segni profetici. Anche lui partirà dalla periferia per arrivare al mattino di Pasqua: giovedì – il giorno in cui Cristo consacrò i primi sacerdoti dell’umanità – vorrà con sé tremila poveri di Roma dentro la Basilica a concelebrare la Messa: senza il loro vociare confuso, la voce di Cristo diventa incomprensibile. Eppoi nel pomeriggio si chiuderà nel silenzio maledetto del Carcere Minorile di Roma a lavare, asciugare e baciare i piedi di quei piccoli discendenti di Giuda. Poco importa se di Giuda il mondo vorrebbe cancellarne il ricordo: Francesco sa che due soli esseri al mondo hanno saputo il vero segreto di Giuda: Cristo e il traditore. A tutti gli altri, Papa compreso, spetta l’umile gestualità di continuare a tessere una tela pasquale dove i fili del bene s’intrecciano inevitabilmente con i fili del male. Perchè nessun uomo corra mai il rischio di sentirsi escluso dalla vittoria di Pasqua.

(da Il Mattino di Padova, 24 marzo 2013)

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