Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Questi, di settembre, sono i giorni dell’anno che amo di più: si portano addosso il profumo dell’uva, nelle orecchie hanno la musica dei campanacci di bestie in transumanza, le foglie incominciano a trascolorarsi. Soprattutto, nei campi, ha inizio la solenne liturgia della vendemmia: mani appiccicose, trattori che rallentano il traffico, roncole, ceste coi grappoli. I cani che, accucciati sulle zampe anteriori, balzano davanti ai vendemmiatori e i passeri che, per dispetto, frullano come degli emeriti sbandati. Certi giorni, poi, sono fortunatissimo: mi imbatto in visi di bambini che s’inseguono tra i filari delle viti. E, anche solo per un attimo, ritorno anch’io bambino: rivedo la vigna del nonno ben zappata, legata, con le foglie tutte giuste e l’odore della terra riscaldata dal sole d’agosto. Mio nonno non sapeva chi fosse Cesare Pavese, ma Pavese conosceva bene l’arte nella quale era ferratissimo il nonno: «Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore». Mentre nonna, dentro casa, cucinava la polenta con il coniglio: se poi si era andati a funghi, per il palato era domenica anche nei giorni feriali.

Ancora oggi, ai primi di settembre, mi perdo a fissare i grappoli che se ne stanno appesi alle viti: assomigliano alle tette gonfie di latte delle vacche al pascolo, alle mammelle di una madre che allatta i suoi piccoli, al ventre gravido di una cavalla che sta per partorire, hanno l’aspetto di un tetto ricolmo di neve. Sfidano la gravità dandoti l’impressione di essere un ginnasta appeso alle sbarre con i muscoli gonfi al massimo, sul punto di mollare, scarnificati dall’acido lattico. Poi, però, i grappoli stanno lì, a resistere, finchè la mano esperta di un agricoltore non si accorge che l’acino è maturo al punto giusto. Allora, con una sensibilità unica, accosta la mano sotto il grappolo e, tagliando il cordone ombelicale con la vite, lo raccoglie per far sì che si trasformi in vino. Qualcuno, nella mia terra, ancora si ostina a vendemmiare così: senz’ausilio di macchine sofisticatissime, vendemmia come si vendemmiava negli anni passati, quando la vendemmia era una sorta di congrega paesana di fine estate. Il risultato di una lunga trattativa tra l’agricoltore e la vite: Chi pota bene vendemmia meglio. La vendemmia, lo sapeva bene il nonno, inizia nella fase della potatura. Mesi prima, da lontano, come da lontano iniziano tutte le più belle storie d’amore e di fantasia.

Scruto l’uva e mi viene da pensare al sole, al loro amore dichiarato pubblicamente. Fanno l’amore in pubblico il sole e l’uva, ma mai nessuno li ha accusati di atti osceni in luogo pubblico. E’ una storia pudìca la loro. Lo stesso identico pudore che, al tempo della vendemmia, intravedevo nei volti delle donne e degli uomini tra i filari a vendemmiare. Appiccicato al nonno, mi piaceva guardare negli occhi le donne capaci di raccontarsi senza pudore: e gli uomini che, ascoltandole, erano ancora capaci di arrossire. “Pensa che magia è questa, Marco – mi diceva il nonno mentre facevo stage con lui tra i filari -: il sole fa maturare l’uva senza toccarla. Non si toccano mai: ci hai mai pensato?” Maturare senza toccare, per me, era la continuazione del proverbio della nonna: “Guardare e non toccare: questa è un’arte da imparare”. Col grappolo d’uva davanti, qualche giorno fa ho ripensato alla ragazza stuprata a Palermo: «Eravamo troppi, mi sono schifato ma la carne è carne. Eravamo 100 cani su una gatta» ha sproloquiato uno di quei ragazzi-belva. Per loro qualcuno invoca la castrazione chimica come deterrente: non sa, forse, che l’avversario va combattuto con lealtà, non umiliato. Proporrei, invece di castrarli, di portarli a vendemmiare manualmente alla scuola di qualche anziano: dare loro la possibilità, vendemmiando, di palpare per bene i grappoli d’uva, ammirare la consistenza dell’acino, rimanere stregati da quella sorta di orgasmo tra la vite e il sole. E, magari, verrà loro spontaneo chiedere come sia possibile tutta questa abbondanza di bellezza, di eccitazione, di piacere senza che l’uva si senta violentata o umiliata. Per sentirsi rispondere che, in natura, si può godere anche senza fare violenza, illuminare senza per forza accecare, amare senza per forza infrangere le distanze. La libertà altrui. Piuttosto che oscurare i siti porno o tagliare l’organo maschile (anche il cuore, comunque è un organo riproduttivo, ndr), ripartiamo dalle mani. Mani che poi incuriosiscono gli occhi e, magari, ridestano una coscienza addormentata, forse anche disordinata. Magari non cambia nulla portandoli a vendemmiare: ma almeno vedranno con i loro occhi che, in natura, nemmeno il Resole si permette di fare qualcosa senza chiedere permesso.
“Vivo di batticuori, non di bavette” risponderebbe il sole.

4 Responses

  1. Vorrei tanto che lei, Don Marco, potesse incontrare, uno ad uno, questi ragazzi. Sono certa che a lei riuscirebbero a dire cose diverse da quelle che abbiamo letto.
    Grazie per averci fatto partecipi dei suoi ricordi e di averci raccontato la storia d’amore tra il sole e l’uva.

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