Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

 800px Bramante cristo alla colonna

La pittura non può essere realistica. Non può esserlo, perché ha la pretesa di imprimere sulla tela l’attimo (che, per definizione, non si ferma), le sensazioni umane (che, molteplici, di affollano, talvolta confusamente, nonché simultaneamente, nella nostra anima), così come le emozioni, che le immagini stesse suscitano in noi. Per tutti questi motivi, l’arte non può essere realistica, ma può aspirare ad essere sintetica.
Come questo quadro del Bramante, di Cristo alla Colonna, conservato alla Pinacoteca di Brera, attualmente chiusa, come molti altri musei, purtroppo.

Così dice il Signore Dio: «Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito. Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure, egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli». (Is 52, 13 – 53 – 12)

Se cerchiamo, in questo quadro, le ferite della Passione, il Cristo piagato dal male, forse – mi direte – ne troviamo ben poco. Troppo muscoloso, troppi riferimenti alla statuaria classica, con lineamenti (e capigliatura) di sentore fiammingo.
Altre realizzazioni,  della stessa iconografia, forse, sono riuscite a rendere in modo migliore, più realistico e – magari – empaticamente coinvolgente, le sofferenze del Cristo, che abbiamo visto preannunciate dal brano che descrive il Servo Sofferente di Jahvè.
Forse, l’opera di Bramante ricorda più il Cristo vittorioso della Domenica delle Palme, che vediamo entrare trionfalmente nella città di Gerusalemme, festosamente acclamato dalla folla, come un re buono e pacifico, di ritorno da una guerra. In realtà, però, in quel momento, Cristo diceva ancora andare in guerra, per combattere il Nemico più insidioso e andare a morire, sul Calvario, fuori di quella città che, pochi giorni prima, lo aveva glorificato di gloria umana. Era necessario, del resto, che il Figlio dell’Uomo fosse rivestito della gloria umana, prima di ricevere dal Padre quella divina («l’ho glorificato e lo glorificherò di nuovo» – Gv 12, 34).

Tuttavia, in quella lacrima presente sul bordo dell’occhio, abbiamo l’estremo realismo. Il primo colpo inferto causa, anzitutto, stupore e meraviglia: precedono il dolore e la sofferenza e, spesso, si manifestano in un pianto muto. Così capita con la frusta: il colpo lascia senza fiato, le lacrime sono mute, silenziose, perché non hai abbastanza aria nei polmoni per poter gemere, al contrario di come, invece, rappresentano in alcuni film.

Il Crocifisso è Risorto, il Re dei Re regna dal trono della Croce: eppure, nell’uomo sofferente, Disma è riuscito a vedere il Re trionfante. Non è un ossimoro: è la gloria divina, che riassume in sé, contenendoli ambedue, il dolore e la gioia.
In quello sguardo lacrimoso, ma determinato, c’è lo sguardo di guarda oltre, passando attraverso. Di chi non rinuncia alla sofferenza, ma, già mentre la vive, rivolge il proprio sguardo alla gioia che non ha fine.
Quasi tristes semper autem gaudentes (2Cor 6, 10): così, san Paolo sintetizza efficacemente l’anima del cristiano.  Nella seconda lettura liturgica, l’Apostolo approfondisce la questione, trasformandola in invito:

Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio (Eb 12, 1-2)

È Gesù il traguardo a cui puntare lo sguardo, in quella corsa che è la nostra vita, perché, in Lui trova sintesi perfetta la pienezza dell’umanità e della divinità, cui anche noi siamo chiamati a partecipare. Accoglie l’umiliazione della Croce, mentre innanzi a sé ha la gioia. Siccome, però, in Dio, il tempo è tutto concentrato con la densità di un punto (comprende, cioè, simultaneamente, passato, presente e futuro), può attraversare, contemplando ambedue, la gioia e il dolore, per poi oltrepassarle e realizzare la Gloria di Dio.
Gloria del Risorto, che passa dalla Croce. Gloria di un Crocifisso, che è Risorto («dux vitæ mortuus, regnat vivus» – Victimae Paschali laudes).

 


Rif: Letture festive ambrosiane per la Domenica delle Palme (Messa del Giorno)

Fonte immagine:  Wikicommons

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