Capital punishment. Blood sacrifice.

Un Re. Crocifisso.
Difficile pensare un ossimoro maggiore.
Eppure, questa è la scena che contempliamo il Venerdì Santo e che ritroviamo nella liturgia alle soglie dell’Avvento.
Un uomo appeso ad una croce, come l’ultimo dei più infami malfattori. Circondato da una folla, inferocita. Abbandonato da un nugolo di discepoli, confusi e spaventati. Dei suoi dodici fidatissimi, non rimarrà, là sotto, trincea di speranza, che uno sparuto gruppo di donne e l’amato Giovanni. Con che cuore, non è dato sapere. Perché non è detto che il sopraffino teologo, la testa sempre in moto, il vivace figlio del tuono, non avesse, quel giorno, anch’egli il cuore in tumulto, abitato da mille, umanissime perplessità, al vedere l’amato Maestro appeso ad una croce, tra gli spasimi di una morte infame ed infamante. Non degna di lui.
Un uomo, che diceva di essere Dio. Figlio di Dio, per la precisione, perché aveva un “Padre nei cieli” (Mt 5,16). In realtà, dimenticano i suoi detrattori, non si ferma neppure a questo. Perché prosegue: quel Padre non è solo Suo Padre, ma è il Padre Nostro, che ci chiede di chiamarlo così. Quindi, anche noi siamo chiamati a diventare figli Suoi. Figli nel Figlio. In quel Figlio che, sommo amore, ha dato la propria vita per la nostra salvezza, per dischiuderci le porte di quel Cielo da cui è disceso una volta perché noi potessimo dimorarvi per sempre.
Tutto questo, però, non semplifica le cose, anzi: le complica. Perché, a questo punto, sorge spontanea una domanda: se Dio, che è Padre nostro, è anche Padre Suo, com’è possibile che faccia morire il proprio figlio, l’Unigenito? Se ad Abramo piange il cuore a sacrificare Isacco, il figlio della promessa (Genesi 22, 1-18), che, tuttavia, sarà risparmiato, come potrà avere sofferto il cuore di Dio, che è comunione trinitaria, in quel momento?   
Forse, ciò è comprensibile unicamente alla luce dell’infinito amore che Dio ha per ciascuno dei propri figli, al di là dei meriti e dei demeriti, unicamente per il fatto che sono sue creature, da lui volute ed amate da quell’eternità che è il proprium di Dio, incapace di poter esser racchiuso negli angusti confini dello spazio e del tempo.    

 

Che cosa c’entra, tutto questo con il Natale? Perché avere negli occhi il Crocifisso, se il Natale è una festa carica di gioia? Ricordo bene come, da piccola, facessi fatica a coniugare questi aspetti, tanto che arrivo a voler cambiare, anche solo per Natale, la Messa, domandando: «Ma è proprio necessario ricordare che Gesù è morto anche a Natale? Almeno per oggi, non possiamo ricordare solo che è nato?». Spero abbiano un po’ di pazienza i liturgisti con la me stessa bambina… ora so bene che sì, è indispensabile la consacrazione per la validità della Messa ed è abbastanza imprescindibile, ma credo non sia inutile soffermarsi sul motivo.

Natale e Pasqua sono, in realtà, intimamente legate in unico mistero d’amore: quello per il quale Dio è disposto ad assumere forma umana, con una sua libera scelta, carica di conseguenze, pur di prestare soccorso all’umanità ed agni singolo uomo che, feriti dal peccato d’Adamo, vagano in cerca di un nuovo equilibrio che renda conto della loro esistenza.  

Che cosa c’entra tutto questo, con la mia vita? I malfattori sono stati variamente interpretati come figurati di due popoli e in quell’agnizione solenne della regalità di Cristo l’essenza profonda dei credenti, che scoprono la vera natura del figlio di Dio. Senz’altro, possiamo rivederci, nella possibilità di consegnare le nostre esigenze al ricordo di Cristo. Perché, cosi come possiamo davvero comprendere il Decalogo solo alla luce delle promesse realizzate (ricordando, cioè, il bene ricevuto e la nostra relazione con Dio), allo stesso modo, più in generale, ogni nostra preghiera è porci alla presenza di Dio ricordandogli della nostra. Non già perché il Creatore possa dimenticare l’amata creatura, bensì perché siamo noi che possiamo incontrarlo solo nel momento in cui ci facciamo presenti al suo cospetto, cioè ci mettiamo in ascolto, per poter imparare a guardare ogni realtà con i suoi occhi. Perché qui risiede la vera ricchezza della preghiera del “buon ladrone”. Ha intuito che c’era un mistero, in quell’uomo appeso, accanto a lui. Ma ha dovuto rivolgersi a lui, per poter consentire ai propri occhi di accordarsi al Suo sguardo per poter scorgere, in quell’Uomo grondante di sangue, sconfitto agli occhi di chiunque lo guardasse, l’adempiersi di quella Parola, capace di essere salvezza, per ogni uomo che calchi questa terra.


Rif. Letture festive ambrosiane, nella solennità di Cristo Re, anno B

Fonte immagine: istock

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