Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

800px Christ and the sinner

La liturgia ambrosiana ci propone, questa settimana, di meditare sul tema della divina clemenza, cui è dedicata questa Domenica.
La Prima Lettura ci accoglie con l’amara riflessione del profeta Osea che, speranzoso nella misericordia, sottolinea al contempo la volatilità della fedeltà del popolo d’Israele che, a contatto con altri popoli, ben presto, diventa idolatra:

“Che dovrò fare per te, Èfraim, che dovrò fare per te, Giuda? Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce. Per questo li ho abbattuti per mezzo dei profeti, li ho uccisi con le parole della mia bocca e il mio giudizio sorge come la luce: poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6, 4-6)

L’idolatria è argomento che si ritrova spesso nell’Antico Testamento e che caratterizza, particolarmente il libro di Osea. Il finale, tuttavia («voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti») ricorda da vicino la lettera di Giacomo, in particolare, quando dice:

Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? (Gc 2,14)

che, per il suo argomento, così prossimo alle esigenze del cuore umano, è sempre, enormemente attuale.

Qualcuno vede una contrapposizione tra Giacomo e Paolo, estremizzando in Paolo l’insistenza sulla fede e in Giacomo la sottolineatura a riguardo delle opere. In realtà, non è così: possiamo, anzi, ritenerli complementari.
Innanzitutto, le opere di cui parlano sono differenti: da una parte, Paolo parla delle opere della Legge, legate quindi all’Antica Alleanza (che, in Cristo, ha visto il proprio compimento), mentre Giacomo parla delle opere dell’amore. Queste opere sono necessarie, per rendere visibile e tangibile la fede che professiamo. Paolo risponde, invece all’esigenza di puntualizzare la salvezza per fede, perché non cadiamo nell’illusione che ci salviamo da soli, tramite i nostri meriti e non quelli di Cristo. Non è quindi inutile la fede, ma richiede la necessità di essere fertile: di parlare, anche nel silenzio di un incontro avvenuto con una Parola in grado di cambiare la mia vita dal di dentro, riempiendo di significato ogni cosa e costringendo a cercare “un’altra via”, come i magi che, incontrato Cristo, non ritornano alle proprie case per la stessa via che li aveva condotti al Messia.
Del resto, anche in Osea, l’insistenza sull’amore non si oppone al sacrificio ma è necessario perché il culto reso a Dio sia davvero fecondo in noi. È utile notare, infatti, che non si parla di sostituire i sacrifici con l’amore (“al posto di”), perché, nel testo, dice invece “più di”: è, quindi, rappresentata una priorità. Quasi a dire: prima di preoccuparti del rito, pensa perché lo fai, pensa a Chi sono io per te, che relazione intendi tessere e se sei davvero interessato a Me, oppure cerchi solo un “rifugio” alla tua solitudine e alla tua insicurezza?
Siamo uomini, non angeli: per noi, il Verbo si è fatto carne. Siamo (anche) corpo: la vita stessa ci suggerisce l’importanza della concretezza, verso la quale la fede non può ritenersi esente. Non può essere solo un’astrazione, una sublimazione mentale, un esercizio cervellotico.
Il nostro quotidiano richiede la nostra fede. Come ben sintetizza san Paolo, nella lettera ai Galati:

«non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20)

È Cristo, Uomo-Dio, il modello a cui guardare e conformarsi. A questo ci chiamano i sacramenti, strumenti di Grazia, nel nostro cammino di fortificazione. Alle volte, siamo scoraggiati proprio da noi stessi, illusi da una visione di perfezione da cui siamo consapevoli di essere lontani, un po’ come lo sguardo che, nel Vangelo , ha Simone il fariseo, quando pensa: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!».
Gesù dimostra di non essere uno sprovveduto e di essere pienamente consapevole sia di chi sia la donna che lo tocca, sia di quali siano i pensieri che turbano il cuore del suo ospite. Di più. La libertà di Gesù è proprio nel fatto che conosce il cuore di Simone e quello della peccatrice e, nonostante li conosca entrambi, mangia con il primo e si lascia amare dalla seconda. Potremmo, anzi, dire che trova il modo, attraverso una parabola, di farli comunicare tra loro.
Simone è scandalizzato che una peccatrice tocchi Cristo, trasmettendogli la propria impurità morale, per di più, in un gesto d’attenzione, di cura, ma anche d’intimità, come si rivela essere quello di ungerne i piedi ed asciugarli coi propri capelli. Cristo la lascia fare, perché comprende che quel gesto di devozione e di amore possa lavarle i molti peccati (che Lui conosce), perché le mancanze nei confronti dell’Amore, solo dall’amore possono essere risanate.
Nella parabola, i peccati sono paragonati a debiti e, forse, spesso, anche nella nostra immagine, li vediamo così. Qualcosa che rende “spigoloso”, non perfettamente lineare il nostro rapporto con Dio. Nella parabola, però, un piccolo ed un grande debitore ricevono, dal padrone, un condono totale per i propri debiti. Alla richiesta di un parere, Simone non fa fatica: è evidente che condonare un debito maggiore faccia sgorgare nel cuore la gratitudine più sincera e commossa, perché maggiore è il debito e minore la probabilità che chi lo ha contratto possa avere la forza e la possibilità di saldarlo. Per questo, il Maestro ne certifica la risposta (“colui al quale si perdona poco, ama poco”).

Il brano evangelico ci ricorda che non esiste peccato che possa essere eccessivo per la misericordia di Dio. Tutto può essere perdonato. Il problema che può frapporsi è se noi ci disponiamo ad accogliere il perdono e siamo disposti a perdonare anzitutto noi stessi.
Sembra banale, ma non lo è ed è Cristo stesso a sottolinearlo. Spesso, periodicamente, ritorna il dibattito sulla possibilità di perdonare chi ci ha offeso, se sia “umano” o “sovrumano”. In questo momento, preferisco non addentrarmi nella questione e fermarmi un passo indietro. Non è possibile perdonare senz’amore. E per poter perdonare, è necessario aver sperimentato il perdono.
Ecco perché, prima di pensare a perdonare, dobbiamo imparare a lasciarci perdonare. Tutti sbagliamo, ma, non sempre, accettiamo di poterlo fare. A volte, preferiamo coltivare un’immagine di noi che non esiste e pensare di dovervi aderire.
L’esperienza liberante di un perdono veramente accolto e vissuto apre nuovi spiragli e nuove possibilità, per vivere una vita rinnovata, alla luce del Vangelo e dell’amore di Dio. Perché è nell’amore che ci conosciamo veramente ed è solo quando siamo immersi nell’amore che, imparando ad amare, possiamo rispondere alla chiamata di Dio di donare al mondo la parte migliore di noi. Come la peccatrice che dona qualcosa di prezioso (il profumo) proprio per una parte del corpo che abitualmente non consideriamo nobile, essendo quella in prolungato contatto con il terreno (i piedi).

 

Rif. Letture festive ambrosiane, nella penultima domenica dopo l’Epifania (della divina clemenza), anno B:


Fonte immagine: Christ and the sinner (Mironov, olio su tela, 2011) – Wikimedia Commons

 

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