Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
naufragio

Catturato! Un punto esclamativo che vorrebbe rassicurare la città di Padova in quanto a sicurezza e affidabilità: il rapinatore seriale, l’uomo che da un mese seminava il panico tra gli anziani, è stato catturato. Finalmente. Onore agli uomini di Marco Calì: non è sempre facile, nemmeno per chi lo fa di mestiere, da un semplice frame risalire ad un percorso di delinquenza fino ad attribuirne la paternità. Loro, ancora una volta, ne sono stati capaci: il resto sono solo chiacchiere al vento. Le agenzie di stampa lanciano la notizia, com’è doveroso che sia. Su tutte viene dato risalto ad un piccolo particolare: quell’uomo era appena uscito dal Carcere Due Palazzi. Che è come dire: la sua biografia complicata poteva lasciar prevedere il seguito della trama. La risposta è addirittura scontata, manco a leggerla nei siti internet: “con un curriculum così non avrebbe dovuto uscire per anni. C’è gente che parla di indulto”. E’ la voce dell’osteria, quella che ignora di come una pena abbia un inizio, un’esecuzione e una fine. C’è però una sfumatura sulla quale vorrei soffermarmi: dopo oltre un decennio di carcerazione non siamo dunque riusciti – uso il plurale perchè questa è un’avventura che quotidianamente scriviamo a più mani – a rieducare quest’uomo. Dobbiamo dunque considerarla come una nostra sconfitta?
In carcere la rieducazione (art. 27 della Costituzione) è oggi un’utopia: dietro un’esistenza che rinasce ce ne sono a centinaia che s’addormentano definitivamente, con grosso rischio (a volte non percepito) della società. Eppure chiunque lavora nelle carceri sa che l’urgenza prima di un educatore non è tanto il pentimento o il cambiamento di una vita: la vera necessità è quella di fare in modo che si possano creare le condizioni migliori perchè una persona intraprenda il viaggio più ardito: quello, a ritroso, verso le sorgenti di un gesto per poterlo poi guardare in faccia e decidersi se abbandonarlo o farne uno stile di vita. Quando mancano le condizioni – il lavoro, in primis -, tutto diventa più complicato. C’è una percentuale altissima del nostro lavorare che va perduta: nel mio caso penso lambisca la zona del novantanove per cento (voglio essere ottimista, ndr). Eppure ciò che spinge a “giocarsi” in quest’avventura nebulosa è la consapevolezza che qualcosa può cambiare, che qualcuno può cambiare: non è ottimismo a basso prezzo, è il volto più lucente della speranza cristiana. Un detenuto che esce e torna a delinquere non è la sconfitta di un educatore: chi lavora con il fango prima o poi mette in conto di potersi anche sporcare. Certo che dispiace, ma quel tempo investito – laddove anche il tempo a disposizione non sia un’utopia – è valso comunque la vittoria più bella: quella di averci provato fino in fondo a fare di lui una persona migliore. Nella piena consapevolezza che nel ventre di una galera non è possibile salvare la società intera: è però fattibile mostrare come taluni riescano a cambiare traiettoria, fino a testimoniare che nessuna storia è così sgangherata da non poter essere rimessa dentro le trame di un racconto. Quando abita condizioni di dignità.
La storia di Pierluigi è forse la storia di un naufragio, del suo naufragio prima di tutto. E in quel frantumarsi contro le scogliere ha coinvolto il lembo più fragile dell’isola, quello della vecchiaia. Ma ha anche mostrato cosa può succedere quando l’uomo viene dimenticato per anni nella caverna di una galera senza un progetto tra le mani: apri la gabbia e la voglia di mordere è alle stelle. La Polizia ha fatto il suo lavoro: senza proclami altisonanti s’è inabissata dentro una strada frastagliata e l’ha arrestata. Il vero dramma non è il naufragio di Pierluigi ma l’ululare di troppe voci di passaggio. Ancora una volta val bene la saggezza dei vecchi: chi sa fare faccia. Chi sa parlare taccia.

(da Il Mattino di Padova, 8 novembre 2013)

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