Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

tempi moderni

E’ nato prima l’uovo o la gallina?
Chi ha la precedenza in ambito religioso, la salvezza dell’anima o il tema lavoro dell’uomo?
Per la prima questione oggi la comunità scientifica è abbastanza unanime per far pendere il piatto della bilancia in una sola delle due opzioni.
Per la seconda questione, invece, la gran cassa dei social network ha visto lo scatenarsi di due tifoserie opposte, che non hanno mancato di scambiarsi reciproci assalti degni di un torneo di scherma. L’evento scatenante, questa volta, è stato l’intervista di Papa Francesco apparsa ne Il Sole 24Ore, sul tema del mondo del lavoro e della dignità dell’uomo.
E’ un fatto assodato: il mondo odierno sta assistendo ad una sorta di privatizzazione della fede, nel senso che non è più vista come qualcosa da mostrare – o portare – in pubblico, nell’ambito sociale o lavorativo, bensì come un fenomeno strettamente intimo e personale, da tenere quasi nascosto. Di contro, anche da parte di alcuni che invece sarebbero ancora propensi a renderla un fatto collettivo, c’è l’idea che la religione debba starsene ben lontana da questioni sociali ed economiche, riservandosi l’ambito della preghiera e della salvezza delle anime. Queste due prese di posizione, nella loro diversità di partenza, sono giunte ad una medesima conclusione: tematiche quali economia e mondo del lavoro non dovrebbero avere nulla a che fare con questioni di fede.
La terza posizione, ovvero la seconda delle due tifoserie, ritiene invece che la salvezza dell’uomo ed il suo lavoro nel mondo non solo siano strettamente connesse, ma che l’una non possa avere senso senza l’altra.
Alla fonte di questo punto di vista c’è proprio la Bibbia.

“Il Signore Dio prese Adàm e lo depose nel giardino di Eden, perché lo lavorasse e lo custodisse.” (Gn 2,15)

Il peccato originale è ancora lontano. Agli albori dell’umanità tutto è ancora idilliaco, e tuttavia “non bisogna pensare che Eden fosse una sorta di paese della Cuccagna, nel quale il cibo saltava in mano all’uomo.”* Se così fosse stato, quello della Genesi sarebbe un elogio dell’ozio e della noia, una proclamazione dell’autosufficienza individuale che basta a se stessa. Quel mitico giardino aveva invece bisogno della mano dell’uomo – ecco la cura e la custodia – uomo la cui natura era il riflesso di quella di Dio. Nel lavoro e nella cura di ciò che gli stava attorno Adàm avrebbe svolto in piccolo quel che il Signore faceva in grande: lavorare per far venire il mondo all’esistenza e prendersi cura delle proprie creature.
Ma allora il famigerato “lavorerai con il sudore della tua fronte…”?
Il peccato non ha creato il lavoro, lo ha de-naturato, rendendolo penoso ed alienante, un fardello che schiaccia e che tarpa le ali ai sogni puntati verso l’orizzonte, verso l’infinito ed oltre.
Non è un caso, infatti, che la parola lavoro, sia nell’originale ebraico che nella sua traduzione greca, possegga la doppia valenza di positivo e negativo. ᾽Abad (ebraico), l’attività dell’uomo che si guadagna da vivere, è anche leitorugìa (greco): se quest’ultimo termine non vi sembra nuovo non vi state sbagliando, la liturgia che si celebra durante la messa altro non è che attività intesa come servizio divino. Nel progetto di Dio il lavoro dell’uomo sarebbe stato un vero e proprio contratto di collaborazione, che poteva spaziare dalle faccende manuali al culto della divinità, nella totale libertà di figli amati senza misura. L’allontanamento da Dio ribalta la situazione, il servizio diventa schiavitù, quando il lavoro viene degradato e sfruttato, quando la persona da creatura libera diventa cosa su cui si può reclamare il diritto di vita e di morte.
Quest’ambivalenza di fondo è un concetto che arriva intatto fino ai giorni nostri, i quasi tremila anni trascorsi non ne hanno scalfito nemmeno un atomo.

 “Il faraone diede questi ordini […]: – Non darete più la paglia al popolo per fabbricare i mattoni come facevate prima…” (Es 5,6-7ss)

Vi ricordate cosa sta succedendo? Durante la permanenza in Egitto, per rappresaglia verso Mosè ed Aronne che chiedono con insistenza la liberazione del popolo d’Israele, il faraone dà quest’ordine, che ai nostri occhi appare un po’ privo di senso: niente più paglia per fabbricare i mattoni, ma a fine giornata il prodotto dovrà risultare della medesima quantità dei tempi precedenti. Ecco la famigerata schiavitù: quando la persona è sottomessa al proprio lavoro, quando vengono bocciate ogni creatività e ogni libertà di intraprendenza, quando tutto è ordinato dall’alto, quando la produzione conta più delle persone che vi sono addette.
Tutto questo non vi suona tristemente famigliare?
Dio, redentore d’Israele, si presenta così al suo popolo come colui che libera, un vero e proprio riscattatore giuridico. Chiama all’esistenza affrancando la creatura dalla schiavitù, perché ognuno torni ad essere ciò per cui è stato creato: uomo custode dei fratelli e del mondo.
Il legame tra le due tematiche emerge vivido, ieri come oggi, non si esaurisce nell’Antico Testamento, ma prosegue nel Nuovo, nel quale è Gesù stesso a prendere tra le proprie mani la condizione umana. Lo fa letteralmente, per trent’anni in una bottega di Nazareth, tra legno, trucioli e profumo di resina. Lo fa con le parabole, nelle quali la condizione dell’uomo lavoratore viene eletta come paradigma dell’amore del Padre, affinché ogni persona possa sentirsi davvero figlio amato nella propria interezza, nella propria dignità di essere umano dedito ad una liturgia che è sacra: quella del fratello che sa vedere nel prossimo qualcuno da amare e mai da sfruttare.

*Fonte della citazione e dell’articolo: appunti di Teologia dell’Antico Testamento, corsi di Jean-Louis Ska, Pontificio Istituto Biblico.
Intervista a Papa Francesco al Sole 24Ore: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-09-07/intervista-papa-francesco-i-soldi-non-si-fanno-i-soldi-ma-il-lavoro-114036.shtml?uuid=AEf2V5lF&refresh_ce=1
Immagine: Charlie Chaplin, Tempi Moderni.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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