paesaggioIl Sinodo sulla Famiglia si è chiuso con la beatificazione di Giovanni Battista Montini, passato alla storia con il nome di Paolo VI, papa dal 1963 al 1978. Una chiusura azzeccata che tanto somiglia ai commiati firmati dall’Orchestra Filarmonica di Vienna in calce alle loro splendide esecuzioni musicali: quei finali sono sintesi e nostalgia del tutto, apparizione e memoria, presenza e anticipo. Sono lo svelamento dello splendore che seduce i sensi per conquistare il cuore: e farlo segregare dalla bellezza.

Dichiarare beato Paolo VI è stato come firmare una certezza che regna sovrana dentro le pieghe e le piaghe dell’avventura cristiana: «Un papa che non subisse critiche fallirebbe il suo compito di fronte a questo tempo», ha puntualizzato con la sua fine riflessione Joseph Ratzinger commentando tale beatificazione. Paolo VI ha vissuto il martirio della fede e morì con le stimmate del martirio cucito addosso. Non tanto il martirio fisico del sangue e delle graticole, ma quello ben più sottile e lacerante dell’ironia e della solitudine. Tant’è che oggi, a leggere la storia cristiana nel trambusto di questo tempo, si sarebbe quasi certi di poter dire che se Cristo tornasse al mondo non verrebbe più appeso ad una croce ma verrebbe messo al ridicolo. E’ questo il tempo dell’intelligenza: la messa a morte era al tempo della passione e del sentimento. Un Papa morto in odium fidei: ridicolizzato per aver testimoniato che la fede, quand’è autentica, non è un’affermazione che chiude qualsiasi discorso ma è un’interrogazione che allarga gli orizzonti degli uomini e delle donne di tutti i tempi. Esponendo la propria appartenenza a Cristo al rischio della storia.
Un Sinodo, quello che si è appena chiuso, che si era aperto narrando di due fazioni: quella dei conservatori e quella dei progressisti. E che si è chiuso – e non poteva essere diversamente – sostenendo che hanno vinto i conservatori sui progressisti o, a seconda degli umori, i progressisti sui conservatori. Una lettura alquanto parziale e approssimativa che abita da sempre i discorsi di coloro che non accettano d’andare al cuore delle questioni ma s’innamorano della superficie: del quasi banale, dello scontato, del prevedibile. In realtà questo Sinodo è stata una splendida immagine di Chiesa, una narrazione genuina e per certi versi inaudita di ciò che rende fascinosa e saporita la scelta cristiana: la Presenza di un Dio delle sorprese che, essendo tale, non ha paura delle novità e dei luoghi nei quali esse amano svelarsi, ovvero le periferie della società. Di una Chiesa «che non ha paura di mangiare e di bere con le prostitute e i pubblicani» come ha sottolineato papa Francesco nella sua relazione conclusiva. Eccola la grande bellezza strappata alle previsioni puntualmente smentite: il rammentare all’uomo d’oggi che l’appartenere a Cristo non è esibire una conoscenza perfetta di come rispondere a tutte le domande che il mondo pone. Ma, forse, l’esatto suo opposto: mostrare la sua innata capacità – che in Gesù di Nazareth s’è svelata in maniera impareggiabile – di saper attraversare con dignità e dolcezza i sentieri dell’incertezza, quelli della complessità affettiva e persino quelli del dramma. Le ore di quelle sere che sono pesanti nel cuore di chi, rincasando, avverte il sospetto che non ci sia più nessuno ad attenderlo. L’angoscia d’essere rimasto solo in un mondo affollato.
Un Sinodo e un invito. Quello di fare i conti con la domanda delle domande, l’unica alla quale i Vangeli offrono ospitalità: che la Chiesa decida nuovamente come vuole essere. Se rimanere una maestra seduta dietro una cattedra di scuola o una donna che è prima di tutto compagna di viaggio. Pronta a spartire e condividere ciò che, forse, non è ancora manifesto a ciascuno.

(da L’Altopiano, 25 ottobre 2014)

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