costaconcordia

Dall’Isola del Giglio se ne parte ammaccata e dolente: come una vecchia anticaglia arrugginita ormai destinata ad essere smantellata, fin quasi – se solo si potesse rimettere mano a certe pagine di storia – ad essere cancellata dalla memoria collettiva. Eppure quella nave da crociera è già passata alla storia come l’immagine del disastro cercato, dell’inimmaginabile arditezza di un comandante, di dove possa giungere la voglia di compiacere dell’uomo. Lei, e lui, lo Schettino che è già divenuto un mezzo proverbio: il sinonimo di chi guarda a salvarsi la pellaccia, del capitano che abbandona la nave, della viltà che vince sulla missione. Ne più ne meno, però, di coloro che cavalcano una finanza sregolata per poi uscirsene con una buona uscita in tasca e una scialuppa abbandonata; di chi sulle strade guida bolidi impazziti mettendo a forte rischio l’incolumità di tante persone; di coloro che pilotano i fallimenti delle aziende incuranti delle famiglie che da quelle scelte usciranno senza più un tetto e una casa. Dall’Isola del Giglio al porto di Genova: è triste il rincasare di quella città galleggiante, ebbra di diatribe e appesantita dalla memoria di tutte quelle persone lasciate alle fauci della morte.
Cosa resterà di tutta quell’avventura? Ben poco, a pensarci bene: la rovina e la vergogna, il rimpianto e la follia, la negligenza e lo sfascio. Ma anche i loro esatti opposti: l’accoglienza (degli isolani) e la voglia di ripartire, la memoria e il suffragio, la ricostruzione e la ripartenza, la pena e l’arte della tecnologia navale. Una nave da crociera somiglia ad una donna dalla prepotente bellezza: è la perfezione che celebra le sue vette più ardite, è l’orgoglio della ricerca tecnica e ingegneristica dell’uomo. Eppure, in mezzo a cotanto splendore, la discriminante ultima rimane ancora l’uomo, nelle cui mani sta il timone della nave. Resta, dunque, la responsabilità più antica e più maestosa: quella dell’essere uomini fino in fondo. La sciagura del Giglio nasce – con un linguaggio tecnico col quale abbiamo purtroppo imparato a famigliarizzare – dall’aver “fatto l’inchino” all’Isola, ovvero dall’aver ceduto alla tentazione di farsi ammirare da coloro che stanno sulla riva. O di compiacere qualche bellezza nascosta nella pancia della nave. L’invito trattenuto nei Vangeli, invece, parla dell’esatto suo opposto a coloro che s’avventurano dentro il mistero dei mari: si tratta di “prendere il largo e di calare le reti” per la pesca (Lc 5). Prendere il largo è l’esatto opposto del far un inchino: è il non accondiscendere alle richieste altrui, il rimanere con la schiena diritta di fronte alle diavolerie della vita, il saper reggere l’onda senza demordere dalla sfida. E’ l’inestimabile ricchezza di chi, consolato nel cuore, non abbisogna dei compiacimenti altrui per sentirsi più uomo: l’uomo dei Vangeli è l’uomo che basta a se stesso.
Il naufragio della Concordia racconta di un disastro e di tante lacrime versate. Oggi, però, rimane anche un monito, ardito e urgente: quello di ritrovare la giusta misura delle cose. Il tempo ammorbidisce la durezza di ciò che accade senza, però, concedere il lusso della cancellazione. Cosicchè da una sciagura è forse emerso il vero volto dell’Italia odierna: a forza di inchini e di baciamani, di inutili reverenze e di fastidiose formalità, s’è incagliata la speranza di un’intera nazione, il sorriso che possiedono le cose semplici. Il conforto che rimane, in mezzo a tutte queste cicatrici, è quello che tramandano le vecchie sarte: la precisione delle cuciture è quella che regge la vita dei vestiti. Almeno questa è la speranza che rimane accesa contemplando quel relitto.

(da L’Altopiano, 19 luglio 2014)

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