Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Nella liturgia della Domenica del Perdono, troviamo due storie di tradimento, infedeltà, che culminano in un perdono, in cui l’offesa non è dimenticata, ma la relazione è rinnovata, grazie alla precisa volontà di riallacciare un rapporto che si è incrinato ed intorbidito, dall’allontanamento dell’altro.
Nella prima lettura, troviamo le disavventure del matrimonio di Osea, che, dopo aver sposato una delle “prostitute sacre” di un culto estraneo a quello d’Israele ed aver avuto tre figli con lei, la vede allontanarsi, per riprendere le antiche abitudini.
Con dolore, Osea si accorge di amare Gomer, nonostante la sua infedeltà. In questo rapporto asimmetrico ritroviamo il rapporto di Dio con il popolo d’Israele che, nel periodo in cui il profeta scrive, soprattutto nei territori del Nord, ha subito il fascino e l’influsso delle religioni praticate dai popoli confinanti, tra le quali, ad esempio, era diffusa la prostituzione sacra. Molti si erano convertiti agli altri, o comunque, avevano accettato un sincretismo di culti diversi, da affiancare al culto d’Israele.
Il profeta è vittima innocente, in questa dinamica matrimoniale di sofferenza. Eppure, invece di pensare al ripudio, pensa ad una strategia di conquista:

«Io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2, 16)

Colpisce sempre leggere questo passaggio: nonostante segua una serie di parole dure e persino invettive, è testimonianza di una amore più forte dell’infedeltà che, a fronte di un tradimento, si domanda il perché e si propone di cominciare in un modo nuovo, trovando la capacità di dimenticare le proprie ferite e volgersi a quelle altrui.
Sotto certi aspetti, possiamo addirittura dire che sia un testo estremamente moderno perché, pur non negando le colpe di Gomer,pare domandarsi come poter migliorare il rapporto a partire da sé, quasi lasciando intendere che, forse, in un rapporto a due, bisognerebbe sempre partire da sé nel pensare cosa non vada. Sempre. Anche quando: “Questa volta, me l’ha fatta davvero grossa”. Perché è fondamentale cosa faccia scattare certe cose, per poterne disinnescare i meccanismi tossici che sono sottesi.
Condurre nel deserto è dedicarle del tempo, quasi fosse un nuovo fidanzamento. Proprio a lei, che, peccando, ha meritato castighi. Che la colpa esiga un castigo lo chiede la giustizia. L’intuizione è che la misericordia possa comportare una conversione più radicale, perché spinge a provare quella nausea per il peccato, per cui esso perde la sua patina di apparente fascino. Che, per inciso, è precisamente, quella che ce lo rende desiderabile. In realtà, il male, in sé, non è desiderabile. Socrate aveva ragione. Tant’è vero che il Tentatore ha necessità d’indorare la pillola, affinché noi ci mostriamo interessati alle sue lusinghe. Il peccato è come una droga, che ci rende schiavi di sé. Il nostro desiderio più forte è – in realtà – essere liberi: anche se la libertà, se ci investe con tutta la sua responsabilità annessa, rischia di tramortirci.
Parlare al cuore è disinnescare i motivi che hanno consentito l’allontanamento, perché significa ricostruire l’intimità che il tempo ha consumato, fino a rendere quasi degli estranei.
Nel libro di Osea, il Signore diventa lo Sposo. L’amato diventa amante, perché disponibile a tornare sui propri passi, a rivedere le proprie strategie, in virtù della sofferenza per l’allontanamento. L’allontanamento è colpevole, ma la lontananza è una colpa che, quando si ama, si sconta da ambo le parti, al di là delle colpe che si frappongono.
La prospettiva diventa, quindi, una sorta di “nuovo fidanzamento”, per riscoprire i motivi di una scelta, di un amore, di una vicinanza. Alle soglie della Quaresima, è un invito a riscoprire la presenza di Dio, dove ormai tendiamo a darla per scontata, in quei luoghi dove potremmo percepirlo assente, distante, quasi estraneo. Dio è sempre lì, in attesa. Magari, di condurci nel deserto, per parlare al nostro cuore.

Il Vangelo ci propone un brano molto, forse troppe noto, così che rischia di essere diventato un abuso. È la parabola del Padre Misericordioso, contenuta nel Vangelo di Luca. Un padre, che ha due figli, si vede chiedere dal figlio minore l’eredità. In anticipo sui tempi naturali, se ci pensate, per il Padre, è un po’ come sentirsi augurare la morte anzitempo. Ma il padre, incredibilmente, non si scandalizza, accontenta il figlio. Si fida. Ma il figlio cova un altro desiderio: le quattro mura non gli bastano più, vuole scoprire il mondo, vuole divertirsi. D’altronde: chi non vorrebbe? Chi non ama il divertimento? Eppure, l’esperienza del figliol prodigo è attualissima: per dirla con Manzoni, «masticando e assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così poco sugo, in paragone del desiderio che n’aveva avuto». Manzoni si riferisce allo stupore di Gertrude, di fronte ad una soddisfazione inferiore all’attesa di essere vendicata nei confronti della serva “spiona”, che aveva intercettato il suo carteggio col paggio. Eppure, non dissimile è la sensazione del figlio minore. Di fronte all’allargamento delle prospettive, garantito dall’allontanamento dalla casa paterna, ha modo di accorgersi come sa di sale lo pane altrui (Dante).
In fondo, il segreto è tutto qui: bisogna disinnescare il desiderio, instillato da una falsa libertà, che ci spinge a desiderare un falso bene. È così che il peccato ha presa su di noi. Il Diavolo è padre della menzogna e può spingere l’uomo al male, solo se lo convince che sia un bene.
In chiusura, abbiamo la figura che forse ci rappresenta di più. Il figlio maggiore. Quello che rimane, quello che ingoia bocconi amari. Quello che, magari non ha il coraggio di gesti eclatanti, ma mastica amara, digerisce con fatica e si sente vittima d’ingiustizia. Ha tutto, ma non se ne accorge. E, una volta ritornato il fratello minore, si rende conto che gli manca un capretto per far festa coi propri amici. Come se non avesse procurarsene, soltanto a chiederlo a qualcuno dei servi. Ma, di fronte al figlio maggiore, ritornato in modo sperato a casa, non riesce a fare a meno di “mettere il muso”. Non importa cos’abbia passato, al maggiore importa cos’abbia ricevuto, per un solo motivo: ne vuole anche lui.
Questo atteggiamento ricorda molto quello di qualcun altro, di un’altra parabola, quella dei lavoratori nella vigna. Al momento di ricevere la paga, quelli della prima ora, vedendo ricevere un denaro a quelli arrivati per ultimi, si aspettano che il padrone della vigna abbia deciso di dare loro un aumento, rispetto a quanto pattuito, a inizio giornata (un denaro, appunto). Enorme è la sorpresa nel ricevere il medesimo denaro. Ciò fa sbottare al padrone della vigna: “sei forse invidioso, perché io sono buono?” (Mt 20,15).
Diciamoci la verità. Quante volte una reazione simile ci appartiene? Ci piace la bontà, meno se a riceverne è qualcuno che non rispecchia i nostri criteri. Allora, ai nostri occhi, la bontà si trasforma in ingiustizia.

Che il nostro sguardo sia purificato, affinché sappiamo accogliere con gioia ogni misericordia: sia quella destinata a noi, che quella che ricevono gli altri.

 

Rif. Letture festive ambrosiane, nell’ultima domenica dopo l’Epifania, detta “del perdono” – Os 1, 9a; 2,7a.b-10.16-18.21-22; Rm 8,1-4; Lc 15,11-32


Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove

Fonte immagine: pexels

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