giroditaliaCent’anni di gesta eroiche, di cime innevate, di tempestosi duelli sulle strade polverose d’Italia. Dalle Alpi agli Appennini, dalla Laguna al Monferrato, dalla Garfagnana al Gargano nacque e crebbe questo bel figlio chiamato Giro d’Italia. Tra campi e vecchie fattorie, distese di grano e vette luminose quel gruppo colorato e veloce divenne l’emblema dell’esistenza stessa: un viaggio, un’epopea, una proiezione della passione che passeggia verso l’Eternità. Un’avventura d’altri tempi, tra rabbia e amore. Da Luigi Ganna, il primo vestito di rosa, ad Alberto Contador, l’ultimo, è serbata l’avventura di uomini simili a cacciatori di fortuna. Che lungo le strade d’Italia portano l’odore acre delle gomme sull’asfalto, il colore della passione, l’arditezza della sfida. Nacque povero il Giro: gli atleti si nutrivano male, rubavano frutti sugli alberi, saltavano nei nidi dei pollai per carpire uova fresche. Nato povero, ben presto divenne ricco della sua nobile semplicità. Schermaglie e duelli, imboscate e fughe epiche, tranelli e coalizioni accesero ben presto nell’immaginario della gente la simpatia per questo sport così vicino alla vita della gente. Senza biglietto né prenotazioni, basta mettersi sull’uscio e attendere, accompagnati da quella carovana che anticipa l’emozione del passaggio. E sulle gradinate delle strade il vecchio sul trattore che racconta di Girardengo, il bimbo con la bandana che sogna il Pirata, la vecchia che ricorda la Dama Bianca stendendo il bucato. Giovinezza, vecchiaia e quell’unica passione per la bicicletta: così simili al Giradengo e all’amico Sante Pollastri musicati da De Gregori. Il Giro e l’Italia: delle due guerre, della Resistenza, dell’emigrazione. Dell’attentato a Togliatti, delle proteste degli operai, del terziario Bartali e del Coppi concubino. Di Binda, Guerra e Nencini. Della lotta sportiva tra il cannibale Merckx e l’italico Gimondi, tra Saronni e Moser. Dello spettacolo di Charly Gaul sulle montagne e di Bahamontes, “l’aquila di Toledo”. Dell’eleganza di Re Miguel Indurain e delle scorribande fratricide tra Bugno e Chiappucci. E del mistero, fascinoso e tremendo, di quello scricciolo d’uomo venuto dal mare romagnolo che riportò agli antichi fasti uno sport dalle radici secolari. Veloce, scattante, fumineo: sui pedali come nella vita. Di lui rimane quella tomba che s’inalbera a mo’ di salita.
Ogni anno un vestito nuovo, con quel rosa di sottofondo che ancor oggi intriga. Un vestito colorato e mille storie da raccontare: storie infami e bellissime, di traditori e di poeti, di musicisti e di giornalisti. Di vittorie e di sconfitte, di alleanze e tradimenti, d’astuzia e spionaggio. Con la chitarra o la fotocamera, con un po’ di porchetta e un bicchiere di rosso, qualche striscione sul tornante e quell’attesa che fa di ogni tifoso il protagonista innamorato di quest’avventura chiamata Giro d’Italia. Lo maltrattano, ne ignorano le radici e l’etica, lo sporcano e lo infangano: ma lui rimane sempre quello del 1909. Bellissimo, emozionante, avvincente: perchè racconta la storia di un uomo che in sella al suo destriero si batte con tutto se stesso per rubare alla sorte il profumo della vittoria. La storia della gente di campagna, di città e di riviera che al fiorire di ogni maggio pennella le strade, orna i davanzali, accende la passione perchè… passa il Giro d’Italia. Doping, imbrogli e imprese truccate: le provano tutte per ammazzarlo questo fiore dell’Italia sportiva. Eppure ogni anno risorge a colpi d’amore: perchè c’è ancora chi scommette che quello di quest’anno sarà il Giro della rinascita. Dopo cent’anni di tentativi.
Il giornalista Mario Ferretti apriva le telecronache con un grido, al posto dei saluti: “un uomo solo è al comando. Ha la maglia biancoceleste della Bianchi. Il suo nome è Fausto Coppi”. Adesso che Coppi se n’è andato e le maglie non son più di lana, non importa chi s’ammanterà di rosa il 31 maggio nella Roma dei martiri. Ci piacerebbe solo che al comando ci fosse un atleta pulito.
Il regalo più bello ad un Giro che da cent’anni è il cantastorie della vita!

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