FinaleBolt

C’è una foto che, da anni, sovrasta le altre sulla scrivania: è una foto che ritrae dei piedi di uomo. Sfatti, dita sformate, unghie scalfite, la pelle in stato di grida-pazzesche. Sono anni che li guardo, li sogno la notte, anche li temo, sono bussola quando imbocco gli argini della città per allenare i muscoli, per tenere a bada l’ambizione, le mille ambizioni d’uomo. E mi vado chiedendo se avesse ragione oppure torto quel genio di Michelangelo Buonarroti quando scrisse che «il piede umano è un’opera d’arte, un capolavoro di ingegneria». Quelli ritratti nella foto sulla mia scrivania sono i piedi di Usain Bolt, per tre-olimpiadi l’uomo più veloce del pianeta terra. L’uomo-Lampo: primati, medaglia, batticuore e sfinimento, il lusso di carezzare il limite, abbindolarlo per poi spingerlo in fondo all’abisso. Esagerato? Assolutamente no, lo dice il cronometro: «Nel libro dei record sta scritto che sui cento metri piani, l’autentica unità di misura della velocità umana, io sono l’individuo più rapido che sia mai esistito» scrisse nella sua autobiografia Usain Bolt. Questo sono io. L’esatta percezione della statura: può piacere o non piacere, la sostanza non muta. A me piace assai. In velocità.
Sabato doveva essere lui l’eroe della serata di Londra: tutto era pronto per festeggiare la pensione dell’uomo che più di tutti è riuscito a spingere le leve del piede in modo stratosferico. Chissà quanti si erano dati appuntamento: davanti alla tv, direttamente nello stadio, in un aeroporto o in una stazione con gli occhi fissi sullo smartphone: con Bolt in pista, il divertimento è assicurato. Così si era sempre pensato, era sempre stato. Così non è accaduto, oppure è accaduto, proprio quando la gente chiedeva accadesse, perchè entrasse nella leggenda ciò che già era una leggenda-vivente. Il giamaicano ha fallito il suo ultimo show: soltanto bronzo per l’uomo d’oro della velocità: 9″95, battuto da Gatlin, l’uomo-nero dell’atletica viziata dal tormentone del doping. Dunque fischiatissimo, Gatlin, dal pubblico dello stadio di Londra: non tanto per il doping – forse – ma per aver rovinato il sogno-folle di tutta quella gente, poi anche di Usain Bolt: chiudere la carriera con l’ennesima medaglia dorata al collo. Invece no: nessun fair-play com’è giusto che sia nello sport. Vince chi arriva primo: punto. Salvo poi inginocchiarsi di fronte alla leggenda: più un tocco di classe dell’americano, un giusto tributo ad un’avversario, giacchè più l’avversario è forte più la vittoria, se arriva, ha valore. Hanno detto – gli uomini dell’osteria e i tecnici esperti delle tastiere virtuali – che è andato lento Usain. Non sono loro a parlare, parla in loro lo spirito del secolo: treni ad alta velocità, internet veloce in 4G, “pranzo veloce e poi scappo”. Tutto normale, normale che con tutta questa velocità si sia scordata la meraviglia della lentezza. “Chi va piano va lontano” finchè tutto sta nella stringatezza di un proverbio. Poi, benvenuto agli smanettoni del pc.
Nella mia scrivania ho spostato dei libri, ho creato uno spazio apposta, mi sono preso il lusso di farmi incorniciare un’altra foto: quella di Bolt sconfitto nella serata londinese. Solo terzo. Débacle planetaria? No: anche quando perde, mai banale è Bolt: sorprende, spiazza, scavalca, irride. Il punto debole, anche nella serata d’addio, è stata la partenza: pasticcia, è costretto a rincorrere, a strafare come sempre, a tentare il tutto-per-tutto per rimettere nella giusta posizione tutti i suoi avversari. Stavolta – la volta – non gli riesce: solo terzo. Che, nella mia testolina da amatore della corsa, piace assai. Per due motivi. Il primo: quel bronzo d’ora innanzi mi racconta che anche Usain Bolt è umano. Il secondo: puoi essere chi vuoi, ma ogni volta è necessario ripartire da zero. E il fattore-x è sempre e solo la partenza. Che, a ben guardare, è quella che sovente fa la differenza, perchè non sempre si riuscirà a recuperare strada facendo. Bolt-di-bronzo: speravo in un finale così, a-misura-d’uomo: lo sento più vicino, meno eroico, lo guardo con più simpatia. L’oro è perfezione, l’argento è frustrazione, il bronzo è dignità. A forza di guardare le cose-perfette, ci si annoia: la perfezione è cosa perfetta, alla fine annoia. L’imperfezione rende più credibile una storia. Non-solo-di-sport.

PiediBolt


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