detenutoIl punto di partenza è sempre un’idea, uno spazio, uno stato dell’anima. Il punto d’arrivo rimane quello di sedurre il mondo perché si scrive sempre per gli altri e mai per se stessi. Si scrive per essere letti perché sin dai suoi albori la scrittura è una forma di comunicazione e non una forma di solitudine. Scrivo, dunque, per raccontarti qualcosa. E per dare forma alla mia esistenza.
La notizia, purtroppo, è rimasta confinata nelle pagine de Il Corriere del Veneto: per una volta saremmo stati orgogliosi di poterla condividere con l’intera nazione. Un detenuto del carcere di Treviso ha scritto una poesia, ha partecipato ad un concorso e ha strappato il primo premio. Entrato in carcere analfabeta, uscirà capace di raccontare la sua vita con l’arma colorata delle parole. Ci sono poeti che trovano ispirazione sul cocuzzolo di una montagna, altri che s’inabissano nel fondo del mare per catturare un’idea e riportarla a galla, c’è chi ha bisogno di sedersi di fronte ad una bottiglia polverosa e chi le parole le sente sbocciare contemplando il volto di una sua musa ispiratrice. C’è anche chi, come questo poeta-detenuto, non necessita di nulla di speciale se non questa postazione per nulla invidiabile nella quale la sfortuna o le scelte di una vita l’hanno cacciato per continuare a contemplare il mondo. Una cella di galera – per chi tiene l’onore di frequentarla – è quanto di più animalesco l’uomo possa immaginare: stanze concepite per tre detenuti di media ne tengono sei, al posto dell’angolo cottura un piccolo lavandino e nel mezzo un water dove far confluire i bisogni di un’intera famiglia. Non c’è privacy, non c’è pulizia e non c’è più nemmeno la forza di urlare che anche nel fondo dell’abisso c’è bisogno di una chance per tornare ad essere uomini. La rieducazione nel periodo del carcere è più un desiderio che una possibilità, almeno nell’Italia giustizialista: eppure è sorprendente vedere che ogni tanto il tentativo riesce.
Che un detenuto entri in carcere analfabeta ed esca poeta è una notizia che racconta la speranza di sapere che dietro quei volti bollati come lupi e delinquenti, ci sono anime inquiete, pensieri strazianti e straziati, menti pensanti e colorate che sanno ancora sorprendere e rilanciare la parola. Fuori dalla galera le parole sono abusate, svilite e troppo spesso banalizzate. Dietro le sbarre di una cella le parole sono rimaste l’unica arma per poter assicurare al mondo che l’uomo è prigioniero ma la sua anima è rimasta libera. Scrivere una poesia è caricare sui segmenti delle parole e delle loro sillabe un peso inedito, è cercare la sfumatura che traghetti nella maniera migliore l’idea che si possiede, è affidare a delle sillabe il racconto di un’esistenza. Scrivere è analizzare le parole, vivisezionarle, tenerne in mano dieci e spendere un giorno per posizionarle nel migliore dei modi. Scrivere è pesare le parole, toccarle con delicatezza per non svilirne la bellezza, cercare la sfumatura che racconti tutto il loro intrigo. Le parole dentro il carcere sono l’aria di coloro che la vita la vedono dietro le sbarre. Ci sono giorni – e forse sono i più – che in carcere scompare tutto, rimangono solo le parole silenziose di chi, prigioniero nel fisico, cerca in tutti i modi di aggrapparsi alla vita dedicandole una canzone, una poesia, delle sillabe frastagliate nelle quali riversare la tristezza e la gioia di vita.
In carcere quando cala il sole si ha paura: d’essere soli, abbandonati, traditi. Del passato, del presente, del futuro. Dell’amico, del nemico, di loro stessi. Della guardia, delle sbarre, della notte. Del silenzio. Perché dentro il lupo sopravvive l’uomo: che ha sbagliato, che deve pagare, che vuole risorgere. In carcere ci s’appisola con mille interrogativi. E una verità: l’uomo è capace dei più smisurati crimini. Ma anche delle più impreviste risurrezioni.

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