tacchiLa parca magnificenza e la sua ubicazione nella piana spopolata e spaziosa la rendono spazio d’incontro agevolato tra cielo e terra, Eterno e Umano, parola e Silenzio. Ma nulla possono di fronte alla sublime assenza del tetto che le permette di lasciar immaginare e scorrere il tentativo d’aggancio tra Creatura e Creatore. Siamo a San Gargano, addentrati nella piana che s’allarga tra Siena e Grosseto. Un tempio, uno spazio sacro, una finestra sull’Eternità.
Ma può Dio abitare in un tempio? Vecchia domanda che solca i pensieri della Scrittura: prima se la poneva il Salomone re, poi la donna Samaritana nell’attimo in cui incappò in una svista con il Viandante presso il pozzo. Eppure oggi la chiesa ci fa celebrare la festa della Dedicazione della Basilica Lateranense costruita appena dopo la conversione di Costantino, in quel frangente di millennio in cui il cristianesimo strappava un insperato plauso nelle campagne dell’impero. E’ la cattedrale di Roma, la madre di tutte le Chiese, il simbolo di un’unità da tempo sognata, cercata, pregata. Eppure nemmeno lì Dio ci abita: rimane pur sempre un segno, un mistero che addita, una prospettiva di direzione. Stupisce l’accuratezza, la perfezione, il connubio tra arte, cultura ed estasi nascosto nelle nostre chiese. Vetrate dipinte, legni intarsiati, gioielli incastonati. Pulpiti ricamati, marmi preziosi, prospettive vertiginose. Musiche gregoriane, decorazioni architettoniche, danze popolari Per un senso d’eleganza, di mistero, di trascendenza. Perché la chiesa non sia luogo dalla fissa dimora, ma zona di passaggio, specchio del Cielo, occasione di inciampare per trattenere il Mistero. Simon Weil – mente pensante nelle baracche fumanti di Auschwitz -, s’era convinta che la bellezza fosse l’esca del Divino. Che Dio parlasse attraverso l’armonia, l’evocazione, l’immaginazione.
Simboli che parlano, immagini che attirano, silenzi che gridano. Oggi s’attraversano le chiese armati di telecamere e cellulari, microchip e digitali, fogli d’architetto e appunti di giornalisti. Coi tacchi a spillo, con le vesti corte, con lo sguardo stanco. Ci s’accampa sulla pianura del silenzio travestiti di distrazione. E le pietre delle chiese diventano motivo di venerazione, convinzione di pace dell’anima, luoghi di bellezza immortalata. Perdendo lo slancio verso l’alto. Non riescono più a raccontare il Mistero che tengono dentro, la Luce che un tempo le faceva riscaldare, lo scalpello che governava la loro nascita. Tutt’intenti a scoprire le “particelle di Dio”, a vivisezionare topi e bambini, accaniti rivali nella Creazione, dell’immaginazione sembriamo farne pure a meno. Senz’accorgerci che le cose non ci dicono più nulla. Le pietre rimangono pietre, le musiche rimangono note tra loro attorcigliate, le navate spalti per uno spettacolo cui assistere. Il teologo francese Henri de Lubac amava sostenere che il Cristianesimo aveva regalato alla triste freddezza dell’Impero romano una nuova freschezza: il miracolo dell’immaginazione. Che tante notti di studio rubò al Sarthre filosofo. E al Cristo Messia.
Recuperare l’immaginazione per riassaporare lo stupore.
Stupore che, lungo il fluire dei secoli, è rimasto voce sussurrata e impetuosa di Dio dentro le navate frastornate del mondo.

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