Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

DSC_00292004-08-25_183200Ricordo come brillavano gli occhi, in quel viso di cinque anni al proclamare: “Anche tu sei monella!”. Io mi volto in su, alla finestra a cui si era affacciato, mi sento presa in castagna, pur non avendo fatto nulla. Sorrido, e capisco il motivo della sua esultanza, intravvedo il pensiero che dev’essergli passato per la testolina: sapere che “anch’io” sono monella, lo fa sentire meno solo. Non riesco a contraddirlo: del resto chi, almeno una volta nella vita, non è stato un po’ monello?

Essere d’esempio per i più piccoli non significa che siamo (già) perfetti. Personalmente, poi, sostengo da tempo un principio insostituibile: tutto è perfettibile. Che ho visto altrimenti sintetizzato in questo modo: “Lascio agli altri la convinzione di essere i migliori, per me tengo la certezza che nella vita si può sempre migliorare”. Quest’altra formulazione – forse – aiuta a capire meglio chi scambia questa convinzione per pressapochismo o per ipocrita umiltà. Invece è tutto l’opposto. Un atteggiamento di ascolto, di disponibilità ad essere corretti garantisce di avere lo spazio per essere migliori. Per cui, al contrario di quello che si è forse portati a pensare inizialmente, si tratta in realtà di un atteggiamento ambizioso. Volto, cioè a volere e a credere possibile un continuo miglioramento.

Questo modo di porci è però precluso, nel senso comune, quando stiamo coi bambini, o – comunque – con altri soggetti educativi con cui sviluppiamo un rapporto educatore–educando. Quasi che una scelta di ascolto, di accoglienza dei nostri errori possa metterci in cattiva luce ai loro occhi, sminuire il nostro ruolo oppure renderci meno credibili.

 

Io mi sto rendendo sempre più conto come sia vero l’opposto. È importante ammettere gli errori, specie quelli del passato, di quando avevamo la loro età. È necessario ammettere, ogni tanto, di avere avuto difficoltà e – magari – di vivere anche nel presente delle difficoltà. Aiuta noi e aiuta loro. Aiuta noi perché evita di farci sentire onnipotenti e – in un certo senso – investiti di una responsabilità superiore alle nostre forze. Ci sono affidati dei bambini, ne siamo responsabili; ma non sono nostri. E questa è una sensazione che, nei casi più drammatici, rischia di farci sentire impotenti, arresi; ma, nella maggior parte dei casi è liberante: significa che non spetta a noi l’ultima parola. Che c’è una sovrana libertà individuale, unita all’affidamento a Chi ci ha donato quello che ci è solo affidato (e di cui dobbiamo rispondere, ma non in modo totale: se fosse altrimenti, avremmo a che fare con un oggetto!). Ma aiuta anche loro, perché li fa sentire più vicini a noi, ci fa sentire “raggiungibili”, anche se magari non nell’immediato, e questo – per chi è costantemente in fase di crescita (e i bambini ne sono consapevoli!) – è oltremodo rassicurante; li fa pensare di essere affiancati da qualcuno che ha percorso strade simili, facendo errori, sbagliando, ma che è poi riuscito a “sistemare”, se non tutti, almeno molti degli errori commessi.

A volte, la nostra incapacità di ascoltare li fa essere diffidenti dal confidarsi. Eppure, quei piccoli problemi da bambini (che noi consideriamo in questo modo) sono il loro “oggi” di cui si devono preoccupare, o – meglio – occupare. Sapere che anche noi siamo stati bambini, anche noi abbiamo avuto un primo giorno di scuola o siamo andati a catechismo o a pallone con compagni sconosciuti, anche noi (almeno una volta, dai, ammettiamolo!) abbiamo preso una nota per una dimenticanza, un’esuberanza o un comportamento scorretto.

Non voglio assolutamente intendere che gli sbagli dei bambini siano da giustificare. Il comportamento scorretto va ripreso e, dove serve, anche punito (in modo adeguato e proporzionale). Il terrore credo non abbia mai giovato a nessuno. La chiarezza di mostrare bene e male, specie in tenera età, è ormai invece assodato sia assai utile.

Tuttavia, non mi pare che mostrarsi come dei supermen sia utile a rafforzare l’autorità. È invece abbastanza evidente di come metterci nei loro panni anche nell’errore e ricordare i nostri sbagli sia un incentivo all’autostima. Si tratta di umiliarci di fronte ai bambini perché loro aumentino l’autostima? Assolutamente no! Si tratta di notificare che non c’è errore, neanche il più grave, che possa dare la definizione spietata, e senza possibilità di replica, su di loro.

Il senso di colpa non è difficile da instillare. Il bambino capisce senza troppa difficoltà che le azioni hanno delle conseguenze, il fatto che il vaso rotto con la pallonata non ci sia più basta a ricordargli di averla fatta grossa… ma ancora più importante è che il bambino impari che l’errore non ha l’ultima parola. Che, anche in buona fede, può capitare di sbagliare in modo grossolano. Capita a tutti: grandi e piccoli.

Ma lui non può essere identificato con esso. L’ha fatto lui, ma non è lui! È importante fargli arrivare questa distinzione: solo quando l’avrà imparata (e spesso, soprattutto per errori di educazione, non riesce ad arrivarci prima dell’adolescenza!) riuscirà ad interiorizzare che nell’errore c’è il germe del riscatto.

Perché nessuno nasce perdente, nessuno parte sconfitto. In ogni situazione è possibile andarsi a cercare la rivincita. Fosse anche solo quella meta sotto i pali, in una sconfitta dai punteggi tennistici che ti dà la forza di alzare la testa e ricominciare.

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