Siamo all’ultima domenica dell’Anno Liturgico. Ancora qualche giorno e la Chiesa, all’ora del tramonto di sabato prossimo, inizierà i festeggiamenti del suo Capodanno. Che, guarda caso, inizia sempre con il tempo dell’Avvento: le grandi manovre che precedono il Natale, l’attesa che il popolo cristiano ha imparato a far diventare cerimoniale, il tempo ancora a disposizione per tentare la scalata della santità. Probabilmente a noi uomini e donne di quaggiù ci verrà accreditato ancora un anno: ancora giorni, ancora mesi, ancora stagioni. Perchè la Chiesa non è la cittadella dove abitano le persone giuste che insegnano al mondo da che parte stare: rimane, sin dai giorni della sua inaugurazione, una pallidissima luna che cerca di fare del suo meglio per spargere un po’ di luce. Tutto il resto è stare e abitare nella notte come tutti gli altri: anche nella notte oscura della fede. Quella che parla di un Dio quasi assente, di un Mistero sempre più misterioso, di un Pane duro da masticare.
Di una storia che, da qualunque parte la si accarezzi, rimane seriamente incastrata nel perimetro delle cose feriali, dentro il trambusto del quotidiano, nella trame di quella che sovente sembra una storia quasi insulsa. Una storia scritta con i verbi più elementari della: avere fame, avere sete, essere nudi, essere accolti, essere malati ed essere carcerati. E’ l’esame di maturità della Chiesa: dato in larghissimo anticipo, così che nessuno possa dire d’essere stato colto alla sprovvista; domande secche e non aperte in modo tale da non perdere poi tanto tempo, con una prosa scarna ridotta all’essenziale. L’affamato e l’assetato, l’ignudo e il profugo, l’uomo con le manette: tra le mille tracce possibili per la maturità, ogni anno tornano sempre questi cinque volti come “commissari esterni” per la prova di maturità della Chiesa. L’affamato e l’assetato: quelli dei campanelli che suonano e delle cianfrusaglie proposte al cancello di casa. L’ignudo: quello che della Caritas e delle sue postazioni conosce a menadito orari e modalità. Lo straniero e il galeotto: quelli che “chiudeteli dentro e gettate la chiave”. Sempre loro. Con addosso i mille sospetti che ce li hanno fatti amare e detestare. Sono personaggi guasti: «Nel Vangelo i personaggi guasti sono parecchi. Fosse un romanzo i critici timorati farebbero le loro riserve, ma poichè è il libro di Gesù, gli si levano contro i farisei di ogni tempo Lo scandalo del bene non è facilmente sopportabile» scrisse don Mazzolari. Personaggi la cui visione sarà per l’uomo di quaggiù il riverbero del bene fatto in vita: perchè – con buona pace di troppe catechesi autodichiaratesi fallite e fallimentari – ciò che Dio scruterà non saranno i peccati firmati bensì il bene compiuto dentro il groviglio di una vita firmata in prima persona.
Il pane e l’acqua, il vestito e la sedia, le sbarre: elementi primordiali della vita di tutti i giorni. Quella vita qualunque che, al termine di ogni anno, lascia un sospetto intriso d’amarezza e di buoni propositi: che ognuno avrà il futuro che si sarà costruito. Il domani nell’oggi, l’Eternità nei giorni feriali, il Tutto di Dio nel frammento dell’uomo: la storia di quaggiù come una fragile cristalleria dentro la quale, prima di muoversi, è necessario pensare bene dove mettere i passi per non firmare miliardi di danni. Lì dentro, con passi di un elefante o con la leggerezza di una commessa. In un anfratto della galera di Padova oggi giace una scritta: “Nessuno va in Cielo senza la raccomandazione di un povero”. Chi l’ha firmata è un magistrato brasiliano: l’uomo della legge, dell’ordine e della sicurezza nazionale. Quasi una resa di fronte alla verità del Vangelo, dell’unico Vangelo ch’è stato scritto: quello che narra di un Dio scalzo e povero. Che ha messo i poveri e i bistrattati come portinai inclementi all’ingresso di casa sua.
(da Il Mattino di Padova, 23 novembre 2014)