Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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È incredibile quanto sia cambiato il mondo, grazie alle nuove tecnologie. Traguardi futuristici, che fino a pochi anni fa sembravano, semplicemente, improponibili, poco più di una chimera, hanno visto, a poco a poco, la loro realizzazione. È prassi pressoché quotidiana, per tante aziende, realizzare conference call a chilometri di distanza, tra continenti diversi, ricevere mail con scadenza anche oraria dall’altro capo del pianeta.
Tuttavia, ci sono pratiche che stanno diventando (cattive) abitudini e che coinvolgono, purtroppo, soprattutto i più giovani e la costanza con cui si trovano ad avere a che fare con uno schermo, durante una giornata. Basti pensare che, in media, i bambini ricevono uno smartphone intorno all’età di 11 anni. Per i genitori, spesso, è sinonimo della garanzia di poterli rintracciare e controllare in ogni istante, durante la giornata. Inutile dire che tale utopia rimane illusoria perché, in assenza della persona fisica, chi può obbligare il figlio a rispondere al telefono o a rendersi rintracciabile? Oltre a ciò, è innegabile che, intrecciati alla connettività dello smartphone, vi sono un’innumerevole serie di rischi connessi: innanzitutto, è pressoché impossibile avere il controllo sui contatti del figlio e ciò rende molto più facile che possa essere infastidito da estranei; inoltre, l’immediatezza dei social network rende il cyberbullismo più facile da realizzare, più difficile da disinnescare e potenzialmente più emotivamente deleterio, avendo la possibilità di trasformarsi in una moderna gogna di dimensioni ciclopiche.
Non bastasse, l’età aggiunge altri seri pericoli a cui si espongono i ragazzi, a fronte di un eccessivo utilizzo degli apparecchi elettronici, che sono purtroppo, spesso, fortemente sottovalutati, mentre rappresentano i rischi maggiori sul lungo periodo. Quello che manca, è il rispecchiamento emotivo, cioè guardarsi negli occhi e pensare la stessa cosa: è un’esperienza fondamentale di crescita e privarne i fanciulli è qualcosa che non può non lasciare un segno nel proseguimento della loro esistenza. Qualunque schermo conduce ad una sorta di estraniamento, tanto che molti genitori affermano che il figlio, al computer, “non si vede e non si sente”. Ma questa osservazione non è in alcun modo positiva, perché un figlio ha bisogno come respirare di essere pensato!
Le generazioni precedenti hanno dovuto fare i conti con due frustrazioni principali: attendere (che ha la funzione di educare il desiderio, per non essere compulsivi) e stare da soli (che educa alla conoscenza di sé e dà valore alla presenza dell’altro). Queste frustrazioni rischiano di essere avulse dalle esperienze degli adolescenti attuali, contribuendo all’aridità emotiva in cui si ritrovano a crescere.
Ci fa paura parlare di disturbi dello spettro autistico, ma quasi non ci accorgiamo che, ormai, molti di quei comportamenti sono parte dei nostri ragazzi: oltre a non essere in grado di pensare il proprio tempo libero senza congegni elettronici (dimostrando un attaccamento nocivo, che spesso si avvicina e talvolta è, a tutti gli effetti, una nuova forma di dipendenza), più di qualche volta, pare che abbiano difficoltà a guardare in faccia le persone, ad interagire con i propri pari in assenza di uno schermo (basti pensare che, anche tra compagni di scuola ed amici che abitano vicino, spesso, è maggiore il tempo dedicato ai messaggi su whatsapp che quello speso in incontri personali).

Sembra quasi realizzarsi questo paradosso: abbiamo infinite possibilità di conoscere e di comunicare tra noi ma c’è il pericolo, serio, che, trasformati in analfabeti emotivi, non siamo più in grado di farlo con chi ci sta accanto. La tecnologia, nata per unire chi si trova ad essere lontano, rischia di diventare motivo di divisione tra i vicini.
Che fare? Come sempre, forse, la soluzione vincente è partire dalle piccole cose. Imparare a distaccarci dallo schermo luminoso, non avvertire il suo richiamo come ineludibile, ma valutarlo come opzione rispetto ad altre priorità, riportandolo al suo senso originario di mezzo e non di fine. Così da riscoprire tutto il resto. Due occhi che ti guardano dentro gli occhi, il cielo senza bisogno di guardarlo attraverso i pixel di un’immagine sullo schermo, un piatto fatto in casa, senza la necessità di condividerlo con il mondo, una passeggiata tra i boschi, ascoltando come sottofondo musicale il crepitio delle foglie secche, il battito cadenzato dei propri passi sulla terra nuda, intorno allo spettacolo della varietà degli alberi che ci circonda. E, naturalmente, invitare i più piccoli a fare altrettanto, vincendo la “scelta più facile” di depositarli davanti a qualche schermo luminoso, per poterci dimenticare della loro presenza.
Poi, potremo riprendere possesso di tutta la tecnologia e sfruttarla nel modo migliore, senza però dimenticarci del motivo per cui è stata inventata, né della della meraviglia che ci circonda e di cui troppe volte ci dimentichiamo.

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