Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
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Ammetto, senza vergogna, che il Demonio da qualche settimana mi sta tentando seriamente. Sia ben chiaro questo: tra noi due sono anni che la sfida è aperta, da lavori-in-corso. A volte è lui a vincere una battaglia, altre volte sono io a scansare le sue mostruose seduzioni: non è vittoria la mia, semplicemente gli impedisco di vincere facilmente. Comunque mica poco come risultato. Il fatto è che, togliete per un attimo (solamente per un attimo, però!) Cristo, ciò che rimane è un dato di fatto: Lucifero è rimasto il solo compagno di viaggio che – nei periodi di bassa e di alta marea – mi dia la certezza di non dimenticarsi mai di me. Cristo a parte, ripeto: se togliete Lui, questo racconto tracolla. È il primo, Lucifero, a salutarmi la mattina, l’ultimo a dirmi che c’è, la sera quando saluto Cristo, invocando sua Madre: in mezzo, c’è tutto il resto «e tutto il resto è silenziosamente costruire» (N. Fabi). Dio, nel frattempo delle nostre battaglie, sta a bordo-campo, a suggerirmi contro-mosse quelle volte che mi ricordo di volgere lo sguardo a Lui. Cristo non soffre la presenza del Demonio: «È una donna che, sebbene circondata da molte volgarità, non ne viene sfiorata» (M. Burbery). Per merito di Cristo, Lucifero finora ha vinto solamente delle battaglie contro di me. La guerra è ancora tutta da giocare: non è per niente scontato che vinca lui. Non è per nulla scontato che vinca io. L’unica cosa certa è la guerra.
Ch’è fatta di tante battaglie, come quella di qualche settimana fa. Era uno di quei periodi nei quali la stanchezza del fisico minaccia di conquistare il cuore, fiaccando la capacità d’intravedere raggi di luce nei bassifondi luridi dell’inferno. Erano giorni che il mio umore, varcando quella foresta di cancelli, era ai minimi storici: la sua presenza era assidua, snervante, certosina. Una voce maledetta, un sospetto nauseante: “Don Marco, dammi retta: stai a casa stamattina, lascia perdere il carcere, quella gente. Sono sei anni che perdete tempo: non t’accorgi che non è cambiato nulla?” Il suo tono ha dell’irriverente, eppur mi convince, a volte. Entravo che mi sentivo insulso, un’anima che non serviva a niente, sopratutto la domenica mattina. Dentro un mondo che, così-fatto, non serve a nulla. Alla fine quasi gli ho dato credito: per qualche giorno ho provato a fare a meno di entrarci. Mi mancava quell’odore putrefatto di galera, il suono ferroso dei cancelli, la puzza mistica di carne-umana. Mi mancava anche qualcuno di loro che, nel tempo, mi è diventato amico. Si era tra l’incudine e il martello: la mia unica certezza era che non volevo perdere un’altra battaglia. Se proprio era da perdere, che almeno se la fosse sudata quel bastardo.
Ho deciso di sfidarlo nel suo campo di battaglia: il Male. È un azzardo, un gioco pericolosissimo – “Guarda che Satana è più furbo di te” mi dice sempre papa Francesco -, ma stavolta lo volevo sfottere. Nel paese della galera, voi lo sapete, ci sono uomini maledetti: il male maledice. Delusi, abbandonati: sono incazzati, alcuni, col Male con cui erano sposati. Tra tutti, due me li sono scelti come interpreti di galera: sulla groppa hanno così tanti anni di sbarre, così tanti ergastoli, che nessuno meglio di loro conosce il male e le sue logiche, la sua bastardaggine. Una di quelle mattine lascio perdere il lavoro che mi spetterebbe di fare, vado dritto nella cella di uno di questi due, formalmente per farmi fare un caffè. Quando sono seduto, lui mi anticipa: “Ti vedo pensieroso in questi giorni, che succede?” I miei poveri, complice la strada, sono cani da tartufo: il loro fiuto è imbattibile, mentire loro è suicidarsi. Lo guardo, gli faccio la domanda che mi fa ardere: “Dimmi la verità. Secondo te, dopo sei anni che viviamo qui assieme, servo a qualcosa? Sinceramente.” La sua replica è uscita con quella spontaneità che è tipica di chi da anni sembra stesse riflettendo sulla stessa questione. Mi guarda col suo riso diabolico, anche angelico: “Tu funzioni cinquanta minuti alla settimana. Il resto è da buttare. Lo salviamo per quei pochi minuti”. Cinquanta minuti in sette giorni, centosessantotto ore: percentuale deprimente. Ha ragione Lucifero? Chiedo: “In che giorno capitano quei minuti?” La risposta è secca: “La domenica, quando celebri messa. Sei un disastro, non sei più tu: è come se in chiesa ci fosse una devastazione in atto. Finita, saresti da sberle in faccia”.
Funziono cinquanta minuti alla settimana: gli unici nei quali lascio a Dio il potere di manovrarmi. Di manovrarci. I cinquanta-minuti che Satana non riesce più a sopportare: «La spudorata faccia del male, ridotta a caricatura, può essere ridotta allo stato ridicolo» (E. De Luca, Diavoli custodi). Ecco perché mi vuol far credere che non servo a nulla: perché in quei pochi minuti che funziono, funziono-da-Dio. Me l’ha confessato, senza il pudore sul volto, uno di quei banditi che, una volta, appartenevano alle lusinghe di Satana. Impossibile che si sbagli: ha fiuto in misura pari a iradiddìo.


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