Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Il brano della Genesi proposto nella V Domenica dopo Pentecoste racconta l’episodio in cui ad Abramo è promessa una posterità numerosa, in cambio della fedeltà all’Alleanza con Dio, espressa attraverso la circoncisione di ogni maschio del popolo d’Israele (arrivando a specificare, addirittura “sia quello nato in casa sia quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe”). La circoncisione non è solo un simbolo oppure solo un rito: è molto di più. Rappresenta il segno dell’alleanza occorsa tra Dio ed il popolo d’Israele. Incisa, nella carne. Perché l’amore richiede un impegno in prima persona: solo chi è disposto a giocare se stesso, nella totalità, può dire di aver amato davvero. Chi si è lasciato coinvolgere fino a dare la vita, accogliendo la possibilità di un amore che sfianca, logora, perché esso non è mai a prezzo scontato.
A volte, piuttosto, è meglio una forma di affetto calcata nelle ossa, magari quasi eccessivamente informale (fin quasi a rasentare la mancanza di rispetto), piuttosto che una certa forma di rispetto unicamente formale fino alla banalità ed assolutamente priva di vera genuinità.
Paolo, “apostolo delle genti”, nella seconda lettura, si trova ad affrontare l’annosa (soprattutto per i primi cristiani) questione della circoncisione. Il cristianesimo, nato inizialmente come propaggine staccatisi dalle comunità ebraiche, si è trovata a far fronte a questo problema quando hanno iniziato ad aggiungersi diversi pagani che, non avendo in precedenza aderito all’ebraismo, erano incirconcisi e – conseguentemente – considerati come dei “diversi” dai cristiani provenienti dal popolo d’Israele. Alcuni tra loro, infatti, insistevano che, come prescritto dalla Legge ebraica, chiunque volesse aderire al cristianesimo, si facesse prima circoncidere, così da perpetuare il segno dell’alleanza con Dio.

«Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate / e i peccati sono stati ricoperti; / beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato!» (Sal 131)

Basandosi su queste parole del Salmo, l’Apostolo rimette al centro il vero significato della circoncisione, ponendola in relazione con l’avvento di Cristo. Per non essere schiavi della Legge, è necessario ricordarci quale sia il senso profondo della circoncisione e, conseguentemente, dell’alleanza con Dio. Cristo ha allargato i pali della tenda di Dio, predisponendo all’accoglienza di tutti gli uomini di buona volontà disposti a stringere amicizia con Dio. Del resto, già nel libro del Deuteronomio (onde evitare che la lettera della Legge ne soffochi lo spirito), si parla della “circoncisione del cuore” (Deut 10,16), condizione irrinunciabile affinché un rito non si risolva unicamente in un atto fine a se stesso, ma disgiunto dal rapporto di amicizia con Dio. E la vera amicizia con Dio è proprio il proponimento, onesto e sincero (pur con le inevitabili cadute, dovute alla natura umana ferita dal peccato originale) di dire addio alle seduzioni di Satana, accogliendo il perdono di Dio, così da disporsi al perdono – anzitutto – dei propri errori. Perché, alle volte, il passo più difficile da compiere risulta proprio essere accettare il limite del proprio essere umani, imperfetti e pieni di difetti, che, per quanto si sforzino, non riescono, senza la Grazia, a raggiungere quella perfezione – a cui, pure, anelano -.
Il Vangelo ci rende nota una sconfitta, almeno parziale, del Nazareno.

Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui (Gv 12,37).

Quando si parla di segni, nel Vangelo, il riferimento è, inevitabilmente, ai miracoli compiuti da Cristo nel suo girovagare per le polverose strade della Galilea. Ci è utile venirlo a sapere: non è sufficiente il miracolo, per la fede. Essa richiede la profondità di un incontro personale, nella consapevolezza che la parola di Dio è parola che si rivolge a me, alla mia vita, qualunque sia il mio posto nel mondo, affinché io ne sia illuminato.
Dopo aver paragonato se stesso alla Luce, il Maestro ci chiama ad essere figli della luce. Non possiamo essere noi stessi luce, perché non siamo noi il braciere che arde. A noi tocca il compito, forse più umile, ma, al contempo, estremamente prezioso, di dilatare il raggio d’azione di Cristo, nel tempo e nello spazio. Oggi, questo è vero, più che mai. È alla Chiesa che Cristo ha lasciato in eredità di spargere il buon seme della parola di Dio, come Luce che si propaga. È un invito a trasmettere la bellezza di un incontro, capace di dare gusto, senso e direzione all’esistenza quotidiana.
Verba docent, exempla trahunt (le parole insegnano, ma gli esempi trascinano): come la luce non ha bisogno di far rumore per mostrare la propria presenza, perché basta un piccolo lume a spezzare l’oscurità, così, accessi alla fiamma di Cristo, anche noi possiamo essere luce per il mondo e veicolo alla curiosità nei confronti della Parola che salva.

Rif:letture ambrosiane festive, nella V Domenica dopo Pentecoste


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