Le mani di Niccolò Zanardi, 22 anni: il papà, Alex, sta lottando come una iena contro la morte. “Ce la farà! Non ce la farà. Chissà se ce la farà” ragiona la gente. Niccolò al rischio della parola preferisce la sicurezza del gesto: stringe la mano di papà alla sua, l’affida ai social, corredata con la più semplice delle frasi a disposizione di un ragazzo: «Io questa mano non la lascio. Forza papà, ti aspetto. Torna presto». Le mani sono dei simboli, tante volte diventano anche rivelazioni: portano in alta definizione ciò che il cuore custodisce gelosamente. Anche Alessia, 13 anni, ha delle mani gentili: qualche sera fa, appena rientrato dal lavoro, suo papà è morto d’infarto sotto i suoi occhi. Lei e le sue mani non sono bastate come arnesi per tenere in vita papà: “Non ce l’ha fatta” mi ha detto scoppiando a piangere. E mentre guardava le sue mani, più che guardarle ho provato ad ascoltarle, a tradurle: dal modo in cui uno muove le mani – parlando, tacendo, non facendo nulla – ti racconta un’iradiddio d’intimità.
Due figli, Niccolò e Alessia, che prestano le mani ai loro papà: sono mani di figli che prendono per mano quelle dei loro padri. E’ la storia che si rovescia: di solito sono le mani dei padri che (man)tengono quelle dei figli. Capita, però, che certe volte la vita scompigli le carte, costringendo i figli a diventare padri dei loro padri. Pare una beffa, eppure è la più intima delle rivelazioni: nessun uomo nasce padre, lo diventa il giorno in cui gli nasce un figlio. E’ il figlio a fargli dono di questo nuovo soprannome, “papà”: una contaminazione di regali, il padre dona la vita al figlio, il figlio dona la paternità al papà. In caso d’emergenza, poi, questa trasfusione di vita riappare in superficie: quando il padre vacilla, il figlio ricorda bene di come si è sentito quella volta che, da bambino, stava per cadere. E gli viene spontaneo ripetere la dolcezza di quel gesto primitivo. “Un padre deve mantenere suo figlio” si legge spesso nelle carte del giudici. “Mantenere” è un verbo bellissimo, un verbo del cuore prima che dell’economia: significa “tenere per mano”, è verbo reciproco, il verbo del pronto soccorso. Anche ad un figlio, dunque, potrà capitare di dovere mantenere suo padre: è scritto nelle carte della vita. Le mani di Niccolò e di Alessia sono come i cavi che usiamo per caricare gli oggetti: molto più che fili, sono i corridoi attraverso i quali passa la luce, la riconoscenza, la speranza.
Le mani di Alessia, apparentemente, hanno fallito l’impresa: papà, che era un bravissimo agente della Polizia Penitenziaria, non ce l’ha fatta. Niccolò, invece, sta ancora tenendo la spina attaccata: un giorno diremo, col massimo rispetto per scienza ed affini, che quella mano ha fatto più dei ventilatori. I lavori di Niccolò sono in corso, ma quelli di Alessia non sono finiti. Sull’immagine-ricordo di papà ha voluto scrivere lei una frase, invece che citarne una già scritta: «Ti terrò dov’è il mio cuore, qualunque cosa accada, papà. Vivrò una vita per noi tre perchè, come mi hai insegnato tu, “lo spettacolo deve andare avanti”».
Ettore, l’eroe celebrato da Omero nell’Iliade, prima di andare in guerra, prende in braccio il suo bambino, Astianatte. Conoscendo il rischio che sta per correre, sfila il suo elmo e innalza una preghiera agli dei: «Zeus e voi dei tutti (…) possa un giorno dire qualcuno: “Certo, costui (Astianatte) è molto meglio del padre». Le mani di due figli che tengono-per-mano i padri, sono una pagina di letteratura in corso.
(da Il Mattino di Padova, 28 giugno 2020)
Dal 3 giugno in tutte le librerie I gabbiani e la rondine (Rizzoli), il nuovo libro di Marco Pozza
La sofferenza, la rinascita, la bellezza nella Via Crucis che ha commosso il mondo.
Roma, 10 aprile 2020, Venerdì Santo. Nel pieno della pandemia, la Via Crucis celebrata dal Papa non si svolge in mezzo alla folla, nel Colosseo, ma nella piazza San Pietro deserta, sotto lo sguardo dell’antico crocifisso della chiesa di San Marcello al Corso. Le parole che risuonano nella notte della morte e del dolore provengono dalla parrocchia del carcere di Padova: a meditare sulle quattordici stazioni della Passione di Cristo è un’intera comunità di uomini e donne che abita e lavora in questo mondo ristretto. “Mi sono commosso” ha scritto Papa Francesco. “Mi sono sentito molto partecipe di questa storia, mi sono sentito fratello di chi ha sbagliato e di chi accetta di mettersi accanto a loro per riprendere la risalita della scarpata.” In questo libro, partendo dalle meditazioni sulla Via Crucis raccolte e scritte insieme alla giornalista e volontaria Tatiana Mario, don Marco Pozza ha costruito un racconto sulla fede e la risurrezione dei viventi: la Via Crucis di Gesù diventa così una Via Lucis degli uomini, la cui sofferenza è stata riscattata da Cristo in persona. “Mai celebrata una Via Crucis così” scrive l’autore. “Pareva davvero d’attraversare l’Odio desiderando l’Amore.”
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