Ieri, 27 maggio, don Lorenzo Milani avrebbe compiuto novant’anni. Non è qui a festeggiarli con noi. Ma ha lasciato qualcosa ancora più duraturo: un segno indelebile e un’eredità preziosa.
Quando qualcuno lascia un segno del proprio passaggio, in questi giorni trascorsi sulla Terra, è già u avvenimento importante. Siamo tanti, forse tantissimi. E nessuno vorrebbe passare inosservato.
Ci sono persone però – e don Milani è senza dubbio tra queste – che hanno fatto dello sforzo consapevole e imperituto di mettere al centro gli ultimi e i più fragili il motivo per il quale essere ricordate loro stesse.
E quando il solco tracciato nel terreno è scavato non solo a memoria degli onesti cittadini, ma nel nome di Cristo, ciò non potrà passare inosservato; anche nel caso in cui (e si tratta della maggior parte delle volte!) non ci sarà un vero e proprio riconoscimento. Anzi, è bene ricordare che, molto spesso tanti pionieri della carità hanno ricevuto, quel premio ed encomio dei loro sforzi di una vita, il risultato di vedere grottescamente unite nell’osteggiare i loro progetti sia l’autorità civile che quella religiosa. Come si trattasse di un pericolo, di un potenziale ed imprevedibile nemico dell’ordine pubblico, e non una risorsa nuova e da sfruttare per pensare un miglioramento della società!
Quando è un sacerdote ed un educatore cattolico a lasciare un segno indelebile e profondo nel ventre di una società che si dimostra, ad ogni buon conto, incapace di vedere le reali necessità delle persone, c’è un motivo di speranza in più per chi si professa cristiano: è la dimostrazione vivente che la carità ardente è possibile, che si può veramente incarnare il Vangelo nella vita di ogni giorno.
Questo non significa che, di fronte a questo risultato, ci si troverà un’esplosione di urrà a festeggiare un’idea innovativa, o la sua concretizzazione (magari faticosamente ragiunta).Tuttavia, anche se, agli occhi del mondo o a certi occhi da benpensanti si potrà anche apparire semplicemente dei “perdenti”, degli “sfigati” o degli “idealisti” (al giorno d’oggi, ormai, queste parole sono diventate tra loro sinonime!), non è possibile fermare un meccanismo i cui ingranaggi hanno iniziato a muoversi. Ciò che è iniziato, volenti o nolenti, produrrà dei cambiamenti. Piccoli o grandi, dipenderà anche dall’accoglienza che potrà trovare il seme seminato (come nella Parabola del Seminato), ma quando incontri uno sguardo nuovo, non puoi più vedere con gli occhi vecchi. O, quanto meno, non hai più scuse, per continuare a farlo.
In un’epoca difficile nella quale essere cristiani equivaleva a sostenere la DC e non sostenerla equivaleva ad essere marxisti, don Lorenzo Milani ha avuto la rara capacità di mostrarsi in grado di proporre un’alternativa differente, che fosse in grado di concilare il cristianesimo senza scendere al compromesso né con una politica “borghese” né con un populismo di bassa lega. Entrambi, rischiavano di essere irrispettosi della dignità di quel popolo al quale egli amava mescolarsi, ritenendosi fortunata di poterlo fare. La sua scuola non è una scuola diversa o il pallino di un prete anticonformista. È molto di più: è l’unica scuola possibile, in quel tempo e in quel luogo. Ogni altra scuola sarebbe stata inutile ed infruttuosa; uno spreco di tempo vanesio e vanaglorioso. Se val la pena fare una cosa, val la pena farla bene, nel rispetto delle effettive esigenze della collettività.
E qui s’incardina il terzo pilastro di don Milani, vale a dire l’aderenza alla realtà: una sfida sulla quale il sacerdote ha scommesso buona parte del proprio ministero pastorale. Forse ispirandosi a qualche altro grande educatore e suo precursore, come don Bosco, ebbe chiara in mente l’idea che non era possibile fare dei buoni cristiani che non fossero prima dei buoni cittadini.
Non è possibile parlare di fede in modo astratto, riempire la tests di cielo a chi ha non ha pane da mettere sotto i denti; oppure soffre della mancanza (non meno grave!) d’istruzione. Don Lorenzo si rende conto che la quasi totalità degli anziani, ma anche la maggior parte dei giovani che non sono andati oltre le scuole elementari, fatica a comprendere un articolo, anche qualora esso abbia magari per argomento qualcosa di non particolarmente impegnativo. La mancanza di vocaboli e di padronanza della lingua italiana rende praticamente inservibile la lettura di un giornale: proprio ciò che dovrebbe essere strumento di emancipazione, di democrazia e di libertà, si dimostra (nella realtà) solo ipocritamente illusorio.
Sembrano problematiche antiche, legate a mentalità e storia contadine, ad un passato non così remoto ma ormai superato. Invece non è del tutto così.
Da un lato, i nuovi ignoranti sono spesso gli immigrati. Parlo soprattutto delle prime generazioni, naturalmente, cioè gli immigrati che si sono trasferiti qui, già adulti, per lavoro: nella maggior parte die casi le seconde generazioni sono in sostanza ben integrati nella scuola e nel quartiere, tanto che quasi sempre la lingua madre non è più prima lingua, ma ormai quasi la seconda (esempio ne è che parlano abitualmente in italiano con i genitori, anche quando questi rispondono loro nella lingua d’origine). Dall’altro, si va diffondendo purtroppo un malcostume di superficialità che fa sì che le notizie siano diventate un passaparola: le fonti originarie si perdono nella notte dei tempi, col rischio di fare una nuova versione del telefono senza fili, nel quale non si sa mai che peso dare a notizie ricevute da altri e riportate in successione da un giornale o da un notiziario all’altro.
Entrambi questi fattori alimentano una confusione che ha come unico risultato il permanere dell’ignoranza e dell’incapacità di reagire di fronte a molti soprusi che continuano ad avvenire ai danni delle persone meno capaci di difendersi, perché meno forti economicamente, politicamente o culturalmente.
Sulla scorta di queste osservazioni, nascerà la Lettera a una professoressa, nella quale sconvolgerà gli antichi criteri del sistema scolastico, che si rivelava stantio e discriminante in base a criteri socio-economici, in base ai quali chi partiva svantaggiato non era messo in grado di recuperar eil gap iniziale in alcun modo, ma restave sempre, inevitabilmente “indietro”. “Non vi è nulla di più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali”: c’è una ricerca di uguaglianza che finisce con il dimostrarsi sterile, e forse pure ipocrita, se non è accompagnata dalla volontà di creare equità. Non siamo tutti uguali. Non lo siamo mai stati e probabilmente non lo saremo mai. Non risiede però qui il problema. Creare una società di uguali non farebbe che creare un appiattimento, una stesura monocolore su una tela che potrebbe invece, con maggior lustro per tutti, essere variopinta. Il vero obiettivo dovrebbe essere non di creare tanti soggetti uguali, ma favorire la fuoriuscita della ricchezza che la nostra diversità garantisce. Ognuno ha dei doni, ciascuno ha il proprio da condividere con l’umanità. E il vero educatore non dà nulla, si fa solo promotore delle migliori condizioni affinché ciascuno esprima al meglio le proprie potenzialità e le proprie ricchezze.
Oggi come allora, la Chiesa dovrebbe prendersi a cuore il compito di stare loro vicino. Perché se non è lei a prendersi questo incarico, chi potrebbe? Cristo è stato coi perdenti della storia, avendo come seguito una ciurma di sparuti pescatori della Galilea. E con questo confuso gregge, investito dello Spirito Santo, ha portato fino agli estremi confini della Terra la Bellezza dell’incontro con Lui.
Non prendo in considerazione il sistema del do ut des, cioè di ricattare con la ricreazione per riempire chiesa e scuola di dottrina, perché non mi pare educativo. Piuttosto noto che molti giovani preti sono riusciti, per mezzo della ricreazione (e a differenza di me) a farsi voler bene da tutti. Sul principio la cosa mi turbò molto, ora ci ho ripensato: dove è scritto che il prete debba farsi voler bene? A Gesù o non è riuscito o non è importato. Conosco per esempio un giovane prete che si è reso simpatico a tutto il suo popolo. Nessuno dice male di lui, anzi quando si fa il suo nome ognuno sorride bonariamente come di una cosa cara e buffa insieme. Sempre allegro, festoso con tutti, comunisti e democristiani, poveri e ricchi. È un mio caro amico e gli voglio bene, ma ora mettiamo da parte l’affetto e misuriamo quanto ha pagato tutto questo e quanto gli ha fruttato. L’ha pagato al prezzo di parlare solo di sport, d’aver sempre la gazzetta in mano e di evitare con cura ogni discorso impegnativo. Cosa se ne fa ora di questo largo consenso di simpatie? Cosa volete che se ne faccia, cosa volete che ne resti? Non ha sconvolto i sonni o l’appetito a nessuno. lavorerà la Grazia per lui, si diffonderà intorno a lui in un modo misterioso che io non posso misurare. Ma se s’ha da far lavorare la Grazia sola si poteva andare tutti alla Certosa. S’andava più diretti e s’otteneva di più. Siamo o non siamo sacerdoti secolari? E allora bisogna discutere anche sui migliori mezzi umani. C’era un professore di greco molto odiato. Ma i suoi allievi imparavano il greco bene. Non vedo neanche come si possa fare un rapporto fra le due cose quando è così evidente che la funzione del professore di greco è di insegnare il greco e non d’essere amato. E allora perché non dire altrettanto dei professori di fede che noi siamo? Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto. Mi sono attirato contro un mucchio d’odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti di conversazione e di passione del mio popolo. Nel popolo di quel mio amico (escluso il periodo strettamente elettorale) si battaglia accanitamente solo per Coppi o per Bartali. Nel mio si battaglia pro o contro un metodo di apostolato, un modo di fare il prete o di affrontare una questione morale o sindacale. Quel mio amico secondo me insegna poco e a pochi, io invece avrò seminato zizzania, ma insegno anche a chi mi darebbe fuoco. Scegliete voi. Non posso consigliarvi di seguire la mia strada, ma neanche che mettiate la preoccupazione di farsi amare fra quelle che son degne di un sacerdote.Meditiamo questo, quando nei nostri oratorio nelle nostre parrocchie pensiamo prima a quanto siano piene di gente e non a quanto cerchiamo di essere fedeli a Cristo. (don Lorenzo Milani, Esperienze Pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, 1997, pp. 145 – 147)
Chiedo scusa per la lunghezza della citazione, ma è un passo molto bello, che vale la pena di essere letto con il coinvolgimento presente nell’originale.
Meditiamo questo, quando nei nostri oratorio nelle nostre parrocchie pensiamo prima a quanto siano piene di gente e non a quanto cerchiamo di essere fedeli a Cristo.
Tutto questo perché? “I CARE” Aveva fatto scrivere in grande don Milani. Alcuni ci vedono una contrapposizione allo slogan fascista “me ne frego”. Ma perché vedere sempre una contrapposizione, quasi una ricerca forzosa di scontro a tutti i costi? “I care tutto”. Mi importa tutto. Ciò che importa è quello che sta a cuore, fino a togliere il sonno. Fossero anche quelle poche anime di un paese sperduto della Toscana, come fu per don milani. Non conta il numero, né tanto meno il prestigio: agli occhi di Dio siamo tutti egualmente preziosi, come le stelle del cielo che chiama per nome, anche di noi si ricorda per la luce diversa che caratterizza ciascuno di noi.
Ma prendersi a cuore qualcuno è forse l’unica risoluzione in grado di far cambiare la nostra vita. O quanto meno, è il tentativo di far diventare concretezza i tanti propositi ideali con cui difendiamo quei valori che ognuno di noi ha.
Alcune fonti:
Libri consigliati:
- “Esperienze pastorali”
- “Lettera a una professoressa”