Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
pettirosso

Come cembali da accordare e con il viso felicemente smarrito dei giorni del gaudio. E addosso i vestiti tipici della festa: una giacca riordinata, un paio di pantaloni appena cuciti, una camicia abbottonata. Spaesati a festeggiare dopo anni d’inquietudine e di rimorsi mal digeriti. Sono uomini dalle voci rauche e stonate, lungi dalla perfezione di un rigo musicale ma odorose delle grida della strada. Sui loro volti s’è posata la stanchezza di anni di galera, le ferite di battaglie perdute e di vite strappate, il tremore di un’esistenza giocata tra le sbarre e il cemento. Eppure la notte di Natale il loro sguardo sarà la riedizione perfetta dello sguardo incantato dei pastori di Betlemme. Perchè anche quest’anno Dio ha deciso di scommettere su di loro; una scommessa ad oltranza, firmata nei bassifondi della storia – quali sono le galere – nel tugurio di celle più simili alle celle mortuarie che alle sale parto della maternità, laddove l’aroma dei sogni si confonde con l’odore di una miseria dilagante. E’ il volto di un Dio perdutamente innamorato delle sue creature al punto tale da impastarsi di storia e di pane, di sudore e di angoscia, di speranza e di mestizia per raccontare l’inaudito e il paradosso: in un mondo di uomini che sognano di mettersi al posto di Dio, c’è un Dio che sogna di diventare uomo per accendere nel cuore della storia il desiderio dell’Eterno. E’ così che una cella di galera diventa l’incrocio di due strade: quella che riporta il popolo da Babele, paese dell’arroganza e delle torri incompiute, e quella che riporta Cristo da Betlemme, casa del pane e dell’amabile quotidianità. Per entrambi – il Bambino di Betlemme e i detenuti della storia – “non c’è posto nell’albergo” (Lc 2,7). Sul calare della storia del Nazareno, come di mille altri innocenti, serpeggerà il sospetto di una giustizia ambigua: “è necessario che qualcuno muoia per il popolo” (Gv 11,50). Per questo Cristo anche quest’anno pianterà la tenda in mezzo alle celle delle patrie galere, laddove ricomporre i cocci di esistenze frantumate varrà l’emozione di riparare le brecce e ristrutturare le case cadenti cantate da Isaia. A Cristo, in punto di morte, rimarrà solo quel poco di legno e di ferro che basterà per morire inchiodato: è quel pizzico di malinconia che già serpeggia nei vangeli dell’infanzia laddove il giusto Erode è il patriarca di coloro che confonderanno la giustizia con la vendetta fingendosi cercatori della verità più profonda dell’uomo.
Anche dentro i “centri d’abbrutimento statali” quali sono le carceri, quest’anno Cristo nasce: perchè essere guardati da Lui è un’esperienza di Verità, come successe sulle sponde del lago di Genesaret o nelle pieghe tumultuose della donna di Samaria: “mi ha detto tutto ciò che ho fatto” (Gv 4,39). Un percorso di verità iniziato quando, seppur discreto e amante della bellezza, quello sconosciuto Viandante di Galilea si interessò dell’uomo in prima persona fino a sporcarsi di giorni e fatica. L’annuncio, dato dietro alle sbarre, tiene il suono malinconico e festoso delle zampogne dei pastori: “vi annuncio una grande gioia: è nato per voi il Salvatore”. Una notizia che arreca freschezza umana: da quel giorno la storia di quaggiù non è più una stramaledetta cosa dopo l’altra ma l’occasione di ritrovare la forma divina perduta. Perchè in qualunque caos l’uomo abiti, quello sarà il punto di ripartenza per tornare a Lui.
Da quella grotta profumata di pane i Magi se ne torneranno a casa “per un’altra strada” (Mt 3,56): l’incontro con Lui cambia la rotta. E per un’altra strada faranno un giorno ritorno a casa i falliti della storia: in ogni viaggio abita la nostalgia di un luogo in cui sentirsi a casa anche nel mezzo dell’oscurità. Perchè – come scrisse Joshua, detenuto del carcere di Nashville – “il mio cuore batte per le stesse cose per cui battono i cuori degli altri uomini”.

Buon Natale!
don Marco Pozza

(da Avvenire, 27 dicembre 2012)

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