Qualora taluni uomini somigliassero a degli avanzi di società, Frank Van Den Bleeken è uno avanzo al quadrato: è un detenuto ed è pure malato. Il suo curriculum è la pubblicità del Male; o forse sarebbe meglio dire della Banalità, il che suona molto peggio. Cinquantadue anni dei quali trenta passati dentro una cella con l’accusa di stupro e di omicidio. Lo scenario dei suoi raccapriccianti misfatti – un miscuglio di aggressioni e stupri – era quello forse più consono: i margini di un quartiere a luci rosse dove lavorava.
Trent’anni dietro le sbarre di una galera sono tanti, per qualcuno forse troppi, per altri sono poco più di nulla. Per lui, invece, il vero carcere non è tanto quello nel quale è rinchiuso – «Io non sarò mai libero. La mia esistenza non ha senso, sono un pericolo per la società: fossi fuori da queste mura, lo farei di nuovo» – ma è diventata la sua stessa esistenza: insopportabile, fastidiosa, insostenibile. Per questo ha avanzato allo stato la proposta di poter morire. Dopo quattro anni, lo stato del Belgio lo accontenterà: quarantotto ore per riunirsi con i familiari e poi verrà esaudita la sua richiesta. Una pena di morte auto promossa e avvallata dallo stato che, appellandosi alla legge, decide di lavarsi le mani. Niente di meno di ciò che anni addietro fece Pilato, il procuratore-farsa dei tempi di Cristo.
La disperazione di un uomo nessuno la può misurare, sopratutto di un uomo al quale viene tolta la libertà e ipotecata la speranza. Eppure certe grida nascondono un bisogno che non è solo di chi è detenuto: «La mia esistenza non ha senso», ha scritto Frank. Un senso, per l’appunto: quell’apparente “pochezza” che in certi posti vale in misura inversamente proporzionale. Il poco che fa la differenza: conosco uomini dietro le sbarre condannati a pene mostruose che – magari sudati, affannati, resi ormai sbilenchi nei sogni – s’intestardiscono a trovare un senso alla loro pena, alla loro atroce sofferenza, al tempo che in quei binari morti sembra non passare mai. Per qualcuno di loro, il patire – ch’è tutt’altra cosa dal masochismo – diventa quasi una forma di espiazione, di condivisione, di sostegno per coloro che sono stati vittime delle loro gesta. Il soffrire come strada per ritrovare la verità della propria storia. C’è gente che la cronaca tratteggia come “mostri” e che dentro le patrie galere sta riacquistando la vera libertà, quella che nasce dal far pace con se stessi prima che con gli altri e con Dio. Percorsi di riconciliazione, percorsi di mediazione, percorsi di speranza. Costoro arrecano l’annuncio più bello: la morte – o il suicidio – non è l’unica maniera per uscire dal carcere.
Quella di Frank è una morte di stato: alla richiesta di un cittadino, lo stato ha risposto con la liceità della legge: “Lasciatemi morire” – grida uno. Lo stato sfoglia le carte e risponde: “Richiesta accettata”. Più che un passo di civiltà somiglia ad uno rifuggire dalle proprie responsabilità: la detenzione – almeno nella carta – è un periodo che lo stato concede (e si concede) per rieducare un detenuto. Per rimetterlo nel binario della città, per riaccompagnarlo dentro gli uomini, per rammendare un passato che è andato deragliando. Schivare questa responsabilità equivale a fare del carcere l’anticamera del cimitero. Fonti dirette affermano che più volte Frank abbia cercato di suicidarsi ma glielo hanno impedito. Forse il suicidio era una cosa non concessa dalla legge, l’eutanasia sì invece. Oppure il vero motivo sta nei racconti di coloro che nel carcere ci vivono: per suicidarsi occorre un coraggio che non è da tutti. Tanti ci provano, poi all’ultimo non riescono e, magari, s’incazzano pure. Da solo Frank non c’era mai riuscito. Gli è venuto in aiuto lo stato, armato di leggi e cavilli: in due, forse, ci si fa forza. E ce ne vuole tanta di forza per considerare questo una vittoria.
(da Il Mattino di Padova, 21 settembre 2014)