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Ho visto una mamma passeggiare con il suo bambino su un sentiero di montagna: lei davanti, lui dietro, vicino-vicino, pareva accasato su ali d’aquila, una sorta di carrozze di prima classe. Poi, tutto d’un tratto, lei s’arresta, appena fatta la semi-curva: fissa qualcosa in lontananza, c’è un non so che che le fa brillare gli occhi, facendole dire uau! Il bimbo s’innervosisce per troppa curiosità: un muretto di pietra gli impedisce di vedere ciò che vede la mamma. E’ piccolino lui! Non gli basta guardare lo stupore di riflesso dalla mamma, vuol vederlo con gli occhi suoi! La mamma – “Bisognerebbe essere mamma per capire certe cose!” – fiuta tutto: se lo prende in braccio e gli porta il volto all’altezza del suo. Tutto cambia: è doppio uau! Da terra quella meraviglia era di seconda-mano: occorreva fidarsi, accontentarsi di vederla riflessa, sciacquarsi gli occhi con l’acquolina in bocca. Invece no: essere mamma non è solo avere il grembo gravido, è stare pronta ad abbassarsi ogni qual volta il bambino vorrà alzarsi. Innalzarsi. Pareggiare lo sguardo.
Guardare questo squarcio d’estate in famiglia, è stato come assistere ad una versione riaggiornata del Magnificat di Maria. Non per nulla in tanti la invocano chiamandola Mammamaria. Ingarbugliata nella gioia più matta che il mondo abbia mai più avvertito – «Ave Maria, il Signore è con te (…) Diventerai madre del Salvatore» – avverte subito di non riuscire a (trat)tenere per sé l’urto di quella gravidanza che le ha già scardinato la giovinezza. Corre a perdifiato, con il pancione ancora in stato d’abbozzo: corre da un’altra donna che ha in sé un’altra gravidanza pazza, insolita. Ha sangue-cugino, Elisabetta: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo»: è la prima strofa di Ave Maria della storia, rivolta a Maria in persona. Loro due si avvolgono gli sguardi: e i loro occhi fioriscono guardandosi. Sono due donne in attesa, madri in rampa di lancio. Stravagante è il dialogo tra i loro bimbi muti, già operosi: «Appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo». Più inconfondibile delle impronte digitali ci sono le sfumature della voce: “Che voce d’incanto che hai tu, Maria!” Non è nemmeno un parlarsi il loro, è la voglia matta d’indossare la voce altrui. A Maria piace assai quest’incipit di Ave, le piace così tanto che s’inventa una canzone.
E gliela intona alla cugina, per vedere che effetto le facciano quelle parole che è impossibile circoscrivere: «L’anima mia magnifica il Signore (…) perchè ha guardato l’umiltà della sua serva». Praticamente, sotto-sotto, le dice la cosa più bella che un’amica possa dire all’amica del cuore: “Ho trovato l’amore, così, d’improvviso. Appena dietro la curva, sopra il davanzale, stava appostato dietro il balcone di casa”. Pare strano persino a dirlo, è una dodicenne o poco più: “E’ che Dio ha perso la testa per me, Elisabetta. E’ tutto grande, incontrollabile, par di vivere su un altro pianeta”. Sì, Dio ha perduto la testa per Maria! Elisabetta fa fatica a starle dietro: “Cugina, vai piano: quando una è innamorata dicono che non capisca più nulla!” Invece capisce tutto, Mammamaria. Prende per gli occhi Elisabetta e, come la mamma sul sentiero, le fa vedere ciò che da sola non può vedere. Guarda, Elisabetta: «Ha spiegato, ha disperso, ha rovesciato (…) ha soccorso». E’ una trasfusione di sguardi in atto: attraverso Maria, Elisabetta sta fissando un paesaggio mai visto, una storia astrusa da credersi, una promessa in fase di consegna: “E’ Lui che ha fatto tutto, non io”. Per dieci volte glielo ribadisce. E’ tutta pura, Maria: quel porco lurido di Satàn non è riuscito a deturparle lo sguardo col tranello del peccato, non è riuscito a farle confondere la pipì con la pioggia. (Maria concepita senza peccato originale, prega per noi!) In lei è tutto chiaro, fulgido, evidente. Non solo sente Dio arrivare nella pancia sua, ma si accorge che nel frattempo ha già firmato «grandi cose». Vede perchè ha voglia di vedere, Maria: poi crede a quello che vede. Per due occhi così, Dio ha perduto la testa completamente: la cosa più urgente da fare era quella d’assumersela con un contratto a tempo indeterminato. Fu così che venne assunta in cielo, l’Assunta. Per tenerci in braccio e mostrarci ciò che il porcodemonio vuol insabbiarci costruendo muretti a secco coi nostri peccati.

(da Il Sussidiario, 14 agosto 2021)

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua (Luca 1,39-56).

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