Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

E’ stata questione di un attimo: un’istantanea, o poco più. Appena ricevuta l’Ostia nella mano al momento della santa comunione, quel signore si è spostato un po’ di lato dal sacerdote e, per qualche secondo, l’ha trattenuta tra le mani e continuava a fissarla col suo sguardo: pareva avesse ritrovato i suoi occhi di bambino da quant’erano sfolgoranti. “E’ normale! Cosa ci sarà di straordinario in tutto ciò?”, dirà qualcuno. È un pensiero, invece – quello di avere Cristo in mano – che ti porta via cervello e cuore se non presti attenzione: c’è il rischio, prigionieri dell’abitudine, di non essere più capaci di cogliere l’ampiezza di quest’umiltà tutta divina: il Creatore, ad un certo punto della storia, ha deciso di mettersi nelle mani dell’uomo. Di fare sì che la sua libertà, in un certo senso, dipendesse da quella dell’uomo. “Siamo nelle mani di Dio” è una locuzione che, sovente, diciamo e sentiamo dire quando un affare inizia a farsi serio, urgente, al punto da strozzarci. “Sono nelle mani dell’uomo”, è l’azzardo che solo il Dio cristiano ha il coraggio di giocarsi. Di (ri)giocarsi ogni domenica. Ogni giorno.

Prendere l’Ostia in bocca o sulle mani è una questione che infiamma cuori e menti: vengono guardate con sospetto le mani, quasi fossero degli arti così ignobili per ospitare il Cristo. Cirillo di Gerusalemme, dottore della Chiesa, ne diede una esegesi magnifica. Era l’anno 386: «Quanto ti avvicini, fai della tua mano sinistra un trono per la tua mano destra, poiché questa deve ricevere il Re. Nel cavo della mano ricevi il corpo di Cristo dicendo: amen». Avvertire, con piena coscienza, di avere il Cristo poggiato sulle mani è poter contemplare con i propri occhi, anche solo per un attimo, che cosa significa che l’amore si reiventa disperatamente, anche di fronte all’evidenza di chi siamo. Le mani, con i piedi, sono le parti del corpo più esposte in fatto di tocchi: tocchiamo tutto, stringiamo di tutto, palpiamo le superficie, le carni. Potremmo quasi dire che siamo ciò che tocchiamo. Toccando, capita che ci si sporchi, poi. Sapere che Iddio decide di posarsi esattamente in quel punto così esposto a tutti, è credere che più in basso di così Dio non poteva arrivare. Un Dio fragile, nudo, effimero che decide di sedersi, prima d’esser mangiato, nella parte nuda, fragile ed effimera che sono le nostre mani.

Ho (ri)visto questo mistero negli occhi di un signore appena comunicatosi: è stato come assistere ad un dialogo silenzioso tra due amanti. Che, al netto di nessuna parola, m’ha ricordato come certe cose mai accadute in una vita intera possono accadere nel breve spazio di uno sguardo. Uno sguardo devoto, innamorato per l’appunto.

(da «Specchio» de La Stampa, 3 luglio 2022)

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