Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Il profumo degli agrumi rallegra i tre diversi cremini. Il gusto del cioccolato è espresso nella sua purezza nei due cioccolatini, al latte e fondente. La pralina finale è il valore aggiunto: miele e rosmarino. Li sistema nella confezione con la cura di un orafo: venticinque praline che racchiudono sei gusti, ripetuti più volte. Quelle praline di cioccolato sono la risposta: potrebbe bastare. La domanda alla quale il cioccolato è risposta, però, è ingrediente-madre qui dentro. Le sue mani somigliano a quelle di un musico sulla tastiera, di un pittore col suo pennello, di un artista all’opera. A tradirlo è il volto, l’unica storia che ogni uomo può giurare essere sua: «Sì, sono io», conferma con un sorriso mansueto. Di quella pace, però, c’è ben poco nella sua vecchia storia: «Un giorno si è presentato da me un imprenditore che, a mia insaputa, mi consegna del denaro – mi racconta mentre indossa i guanti di lattice -. Capisco che si era già accordato con il mio amico. Vedevo la paura nei suoi occhi, io avevo paura, ma ho dovuto mostrami sicuro mentre facevo quel gesto. Nel mio ambiente era l’unico modo per potere stare in piedi: mascherare la paura con la strafottenza. Quell’estorsione è stata la prima di altre. Mi ha cambiato la vita: mi ha spalancato le porte del carcere».
Il cioccolato ti ascolta, non ti giudica mai. Cosicché gli uomini si possono dividere in due tipologie: quelli a cui piace il cioccolato e quelli che non vogliono ammetterlo. Anche in galera gli uomini si possono dividere in due categorie: quelli a cui il male piace ancora e quelli ai quali ha sbriciolato la vita. Colui che sta parlando appartiene nettamente ai secondi: «Non mi rendevo conto che in ogni estorsione non prendevo solamente dei soldi dalle vittime, ma anche un pezzetto della loro vita: toglievo loro la tranquillità, la sostituivo con la paura e il timore del futuro». Nel frattempo del suo racconto, prepara gli ingredienti per una nuova lavorazione: lo zucchero, la pasta di cacao, l’estratto di vaniglia, le mandorle, la pasta d’arancia, il rosmarino essiccato, le arachidi. L’olio di semi di girasole e quello di bergamotto. «Non mi accorgevo, nell’attimo di un’estorsione, che stavo avvelenando anche la mia vita: lentamente si stava riempiendo di inquietudine, di violenza. Mi chiedevo: “Ma se facessero con me queste cose?” Non son più riuscito a trovare un modo per uscire da questa malavita. Chiudevo gli occhi, andavo avanti». Pretendere di vedere chiudendo gli occhi è stoltezza.
A quel tempo si digeriva meglio la stupidità del dolore.

«Tu placa le tristi contese,
estingui la fiamma dell’ira,
infondi vigore alle membra,
ai cuori concedi la pace» (Inno Ora Sesta

Il segno distintivo dell’uomo sono le sue mani: sono simboli, rivelazioni. Gli fisso le mani, faccio due calcoli: sono passati oltre quindici anni da quei misfatti perpetrati in una terra d’intricata bellezza com’è la Sicilia di mare aperto. La sua sua faccia è rimasta legata a quelle gesta omicide, lerce, stolte. Minaccioso, ha accompagnato l’angoscia in casa degli altri, la vergogna dentro casa sua. Dopo decenni passati nella gattabuia della galera, le mani sono le stesse. A mutare è stata la destinazione d’uso di quelle mani: “Memorizzale – mi dico -: le mani che ieri hanno procurato morte possono diventare mani che, domani, metteranno al mondo una scatola di praline al cioccolato”. Mettere le proprie mani in buone mani è prudenza spicciola, una sorta di intelligenza di riserva: «Sono stato un imprudente a pensare che quella fosse la vita. Era normale rubare un motorino, una macchina, un giubbino. Dal venderli per fare soldi a prendermi direttamente i soldi il passo è stato così breve che manco me ne sono accorto. Poi, quando ho visto aprirsi questo cancello, ho capito che era tardi». Troppo tardi.

Non così troppo-tardi, però.

Sarà del tempo mutare la destinazione d’uso delle mani: “Bollire 375 ml di latte, poi aggiungere 125 g di preparato, poco alla volta, e mixare eliminando eventuali agrumi. Fare bollire un minuto e servire” c’è scritto nel preparato per la cioccolata calda che ha appena spostato sul tavolo. Anche questo, qui dentro, «è frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Lo presentiamo a te, (Signore), che diventi per noi cibo di vita eterna» (dalla liturgia). Mixare, far bollire, aggiungere, servire: tutti verbi di prudenza, ordine sequenziale, allergici all’improvvisazione. Idee chiare e cioccolata densa: «Mi hanno arrestato all’improvviso – abbassa gli occhi quando, un tempo, si sarebbe sforzato a usarli come un mitra, un mantra – La cosa più orrenda è stata quella di dover salutare i miei tre figli che ancora stavano dormendo. Da allora, liberi, non li ho più visti: son oltre cinquemila notti che sogno quei volti addormentati, lasciati da soli dentro quel maledetto mondo di squali». Per trasformare la prudenza in stoltezza basterà poco più di niente.
Prende le altre confezioni di praline, le accatasta con cura millimetrica: poi apre la porta e le consegna alla catena di produzione umana. Faranno squadra con le focacce veneziane, i torroncini ricoperti al cioccolato. Panettoni: canditi e uvetta, albicocca-pesca-lavanda, cioccolato e fichi. Quello zenzero e mandarino è roba da far ammattire il palato: Premiato al concorso WineHunter Award 2020 porta scritto sulla confezione. «I premi fanno piacere – è stupito del mio stupore -, ma qui il premio più bello è lo stipendio a fine mese. Fuori prendevo i soldi senza faticare, qui invece sono il frutto del mio lavoro quotidiano. Il giorno in cui ricevo la busta paga è il giorno più bello, credimi: lo aspetto con ansia e, dopo averli inviati a casa, mi sento in pace. Più uomo, più padre, più marito. È stato il primo passo per staccarmi dalla mia vita passata: non volevo più che i vecchi amici mi mantenessero». Ritorno ossessivamente a squadrare le mani, portano la fede all’anulare sinistro: comè possibile che una bestia diventi un angelo?
“A morte, schifosi! Gettate via la chiave, dopo averli chiusi dentro!” gridano fuori da questo paese di ferro-cemento. La guerra in corso, da queste parti, è tra stoltezza e prudenza. La prima sguaina la spada: “Costa meno buttarli via che mettersi a ripararli”. La seconda gioca di fioretto: “Siam venuti al mondo per riparare cose rotte”. E’ prudenza pasticcera far convivere assieme lo zenzero, il mandarino, il gelsomino. E’ prudenza, invece che gettare, riciclare il passato per produrre futuro, nel tempo presente. Come con la pesca, l’albicocca, la lavanda: una nasce per terra, le altre in alto, sui rami. Quando si mettono in cooperativa tra di loro, nasce un sodalizio sensuale: «Mentre lavoro il cioccolato, immagino il volto di chi lo gusterà: “Chissà se saprà chi l’ha fatto!” ogni tanto dico tra me e me. Immagino un bimbo che chiede un altro cioccolatino alla mamma, oppure un signore che si lecca le labbra appena mangiato, o una donna che chiude gli occhi mentre lo assapora. Mi sento più uomo quando penso a queste cose. Mi scopro ogni giorno un po’ diverso». Il cioccolato è sontuoso, avvolgente, nero.
Lavorare il cioccolato, in carcere, è un doppio-lavoro: lavorando la materia si lavora la propria storia. È così semplice d’apparire stolto il non volerlo capire: impastando il buono si diventa buoni, lavorando la bellezza si diventa tali. “Sono fastidiosi come la mosca sul naso”, mi disse un giorno un signore parlando dei carcerati. Attenzione! La mosca, secoli addietro, divenne annunciazione. Giotto, quand’era a bottega dal grande Cimabue, a sua insaputa dipinse una mosca sul naso di un volto dipinto dal maestro. Cimabue si accorse ch’era finta solo dopo aver fatto più volte, con la mano, il gesto di cacciarla via, tanta era la perfezione artistica di quell’insetto da un principiante. La stoltezza, a volte, è una prudenza mancata: «Il male è cresciuto dentro di me lentamente. La fame, a casa nostra, non era una tragedia per la quale chiedere aiuto ma una vergogna dalla quale sbarazzarsi il prima possibile. A qualsiasi costo». Lavorare il cibo sarà materia da storia d’amore. Capita, al ristorante, che ci s’innamori prima dei prodotti e poi delle persone che li lavorano. Qui dentro, invece, ci s’innamora del viceversa: sono le persone, con le loro storie frastagliate e frastornate, che rendono ancor più saporita la materia che (ri)esce sempre nuova dalle loro mani.

«Custodiscimi come pupilla degli occhi,
proteggimi all’ombra delle tue ali,
di fronte agli empi che mi opprimono,
ai nemici che mi accerchiano» (Sal 16, Ora Sesta) 

All’osteria, la maggioranza se la spassa pensando che basti un carcere per far dormire sonni tranquilli, convinti che tutto vada bene così. I prudenti, invece, amano star seduti vicino ai bidoni delle immondizie, amano andare in vacanza nei luoghi della spazzatura. Sognano che nessuno, di tutti coloro che esistono, possa andar perduto senza che qualcuno gli tenda una mano: «Quando torno in cella dopo il lavoro – ormai ha deposto le sue vesti liturgiche di pasticcere – una delle prime cose che faccio è controllare se mi è arrivata della posta: da casa o da qualche volontario. Sapere che c’è qualcuno che, fuori, mi pensa ha il potere di mettermi il cuore in pace». Non solo la pace del tempo presente: «Con il mio passato ho fatto pace, me lo sono perdonato: perché voglio che il mio futuro sia tutta un’altra cosa». Lavori in corso, perché «la prudenza ha un solo occhio, ma il senno di poi ne ha tanti» (Goethe)

“Dispiace, signora. Non riusciamo più a garantire le spedizioni” risponde la voce al telefono della pasticceria. L’uomo del cioccolato, che sorseggia il caffè e si gusta una pralina, assomiglia ad una gondola veneziana: gongola per troppa soddisfazione nel sentire ch’è tutta esaurita la richiesta. «Fra poco metteranno i nostri cioccolatini nell’armadietto delle medicine da quanto bene fanno!» Ride. 

Io non rido affatto.
Mi verrebbe da prendere per il bavero la stoltezza: per aver gettato-via.
Di fare la più bella carezza alla prudenza: per aver cercato di recuperare. 

Davanti a me c’è il risultato di una vita salvata dal cioccolato.

(Testo tratto da: Papa Francesco – Marco Pozza, Dei vizi e delle virtù, Rizzoli 2021)

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Dal 2 marzo, in tutte le librerie, Dei vizi e delle virtù (Rizzoli 2021), il nuovo libro di Papa Francesco e Marco Pozza

A Padova, nella Cappella degli Scrovegni, uno dei massimi capolavori dell’arte occidentale, Giotto racconta il percorso della salvezza umana attraverso le storie di Gesù e di Maria sulle pareti e il Giudizio Universale sulla controfacciata. Nel registro inferiore, in bianco e nero quasi fossero formelle in bassorilievo, Giotto dipinge le quattro virtù cardinali e le tre teologali alla destra del Cristo giudice, e alla sinistra sette vizi che delle virtù rappresentano il contraltare. Proprio a queste coppie di opposti – ingiustizia-giustizia, incostanza-fortezza, ira-temperanza, stoltezza-prudenza, infedeltà-fede, gelosia-carità, disperazione-speranza – è dedicata la nuova conversazione tra Papa Francesco e don Marco Pozza. Le virtù sono le strade che conducono alla salvezza, i vizi quelle che finiscono nella perdizione: “Le virtù ti fanno forte, ti spingono avanti, ti aiutano a lottare, a capire gli altri, a essere giusto, equanime. I vizi invece ti abbattono. La virtù è come la vitamina: ti fa crescere, vai avanti. Il vizio è essenzialmente parassitario”. Riflettere su questi temi serve a “capire bene in quale direzione dobbiamo andare, perché sia i vizi sia le virtù entrano nel nostro modo di agire, di pensare, di sentire”. Per questo, ogni capitolo è arricchito da un testo di Papa Francesco che approfondisce un tema del dialogo e da una storia di vita che don Marco Pozza ha ricavato dalla sua esperienza di cappellano del carcere di Padova. Perché nella vita quotidiana vizi e virtù procedono sempre intrecciati, e questo libro è un percorso che ci consente di ripensare insieme il compito, difficile e necessario, del discernimento tra il bene e il male.

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