Chissà perchè l’uomo corre: pioggia, neve, vento e bufera, grandine e tuoni. Corre! E’ stato questo l’interrogativo che m’ha accompagnato stamattina tra i sentieri di Villa Pamphili a Roma: in questi giorni l’umidità è alle stelle, il respiro pesante ma i chilometri da macinare sono sempre gli stessi e non conoscono saldi di stagione. E di passione e grinta ne serve in quantità industriale. Nella storia sono in tanti ad aver corso: da Filippide a Paolo di Tarso, da Ulisse a Giacomo Leopardi, da Napoleone a Stalin, da Gesù Cristo a Emile Zatopek. Giù fino al bambino che stanotte è nato: ha corso anche lui verso la Luce. C’è chi corre fisicamente e chi corre in modo figurato: magari anche solo per allontanarsi dalla noia del quotidiano attraverso la lettura, lo studio, l’esplorazione dell’ignoto, la lotta contro una malattia (m’è venuta in mente questa forse perché stanotte ho divorato “Bianca come il latte, rossa come il sangue” di Alessandro D’Avenia). Ognuno ha una sua colonna d’Ercole contro la quale sbattere e ingigantire un sogno. Io corro per una somma di infiniti, perché il verbo correre è l’unico che nel mio vocabolario si declina solo nella forma dell’infinito e nel tempo dell’adesso. Corro per vivere, per migliorare, per riflettere, per intuire, per sognare.

Corro per arrivare e per ri-uscire, come talpa a primavera, a contemplare una possibilità diversa di mondo: perché dentro la corsa da millenni c’è qualcosa di nascosto che l’uomo va cercando. Se nasci keniota nasci maratoneta, perché quella scarpata della Rift Valley è grembo di passi veloci. Ma il mio Kenya è un sentiero che costeggia il lago, quella fila interminabile di metri che accarezza frumento e pannocchie, quell’argine abitato da oche, cigni e pesci. Ognuno ha il suo Kenya, anche se sei a pochi metri sul livello del mare: ciò che rende Kenya anche la pianura è la possibilità di liberare il proprio istinto. E fargli prendere aria.

 

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Stamattina ho incrociato un bambino, forse 10 anni o giù di lì: un fisico mingherlino tutto fradicio di sudore, con le bave alla bocca e i pantaloncini grondanti umidità. Ma stava lì, imperterrito e saldo, a girare attorno a quel campo, a squadrare quel cronometro che teneva sul polso, a immaginare quel suo limite da abbassare: il fiatone era il suo metronomo infallibile. Quant’è bello scorgere il sorriso sudato, la grinta esagerata, la faticosa trepidazione che alberga nel cuore di un bambino che s’affretta e s’adopra nell’allenamento del suo fisico. E, inconsciamente, della sua anima. Mentre lo incrociavo ad ogni giro di campo – ogni tanto gli scappava qualche sorriso -, mi veniva in mente quella tremenda frase di Paula Radcliffe, una che di chilometri macinati se n’intende, quando scrisse: “la maratona rappresenta l’esistenza. Ha punti bassissimi che devi superare e momenti d’estasi che ti sforzi di prolungare. E’ un’esperienza spirituale attraverso la quale entri più profondamente in contatto con te stessa, trovando le risposte che cercavi”. Se la corsa è una forma di religione, all’uomo che corre non resta che combattere giorno dopo giorno per non perdere la fede. Proprio quello che stamattina, durante la messa celebrata all’alba, ho sentito ripetere dalle parole tuonanti e focose di Paolo di Tarso che spesso e volentieri trafuga nel vocabolario dell’atleta per spiegare la sua corsa verso la santità:

“Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato”. (1 Cor 9,22-27)

Saper soffrire anche solo un attimo in più dell’avversario: e sarà vittoria piena. Perché il grembo nel quale si tesse la vittoria è la sofferenza e la rivalità rende più forti: chi pensa che la vittoria nasca dalle chiacchiere è passibile di querela per diffamazione dello spirito atletico. Nel frattempo quel bambino continua a macinare giri su giri attorno all’anello verde e arido del campo: chissà cosa viaggia nell’animo di un piccolo atleta. Fosse anche solo la voglia di correre per faticare sarebbe già un buongiorno degno d’essere emulato: perché gli occhi di un bambino sono la vita in miniatura. E la corsa è una vita in miniatura. Cosicché, per la proprietà transitiva, contemplando gli occhi scoprirai dove portano i passi dell’uomo.

 

***

 

Per la cronaca: nella saccoccia verso New York 2010 ho già infilato ad oggi 252,56 km per un totale di 17 ore 45 minuti e 21 secondi di corsa ad un ritmo medio generale di 4’13″/km (14,2 km/h). Oltre 18.000 calorie bruciate. Domani sera, dopo il lunghissimo di 25 km, metterò tutti i tempi delle prime tre settimane d’allenamento.

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