Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Sono nata nella terra degli agrumi, del mare bello giá a maggio, del sole che splende 360 giorni l’anno. La terra della granita, del profumo di zagare e basilicò (sì, con l’accento sulla o). La stessa dell’operazione «vespri siciliani»: erano gli anni ’90 e l’esercito italiano sollevava la polizia dall’incarico di presidiare zone sensibili impegnandosi a setacciare il territorio isolano, proprio come fosse una guerra. La Sicilia é un triangolo dall’indole variopinta – scenario di culture antiche delle quali mostra fiera passaggi e paesaggi – striato del rosso di troppo sangue innocente e del giallo-oro delle colline d’estate, assai simile a quello delle medaglie al valor civile. Del grigio-cenere dei post-attentati, dell’azzurro chiaro di certe lacrime; dell’arancio-terracotta delle ceramiche e di certi monumenti ai caduti. Del verde della speranza mescolato al nero del lutto. Del giallo dei fiori di campo a contrastare il marrone della terra bruciata dal sole caldo e dalla cultura della mafia.
Ieri, in questa mia terra isolana, dopo 10 anni di carcere e 43 di latitanza, è morto Bernardo Provenzano. Un ‘uomo’ che ha fatto della mia terra, di casa nostra, una “Cosa nostra”, affare di stato: lo stato-mafia, la mafia-stato. Il doppio-stato: quello che lascia soli i magistrati, che alla mafia non presenta il conto, ma per i disagi che causa ha creato un apposito fondo. Provenzano, il boss che ha impacchettato la speranza dei miei conterranei e l’ha gettata nei fondali del Mediterraneo. Un trapasso, il suo, che mi ha ricordato la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro. E’ da sempre che esiste il ricco, è da sempre che esiste il povero. Ad entrambi, però, s’annuncia una verità incontrovertibile: nessuno potrà sottrarsi alla morte. Forse il boss, stanotte, sarà costretto a vedere, come in un presente-senza-fine, non uno ma tanti Lazzaro: il piccolo Giuseppe Di Matteo, don Pino Puglisi, il Generale Dalla Chiesa, Boris Giuliano, Pippo Fava, Beppe Alfano, Beppe Montana, Rocco Chinnici, Cesare Terranova, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e i ragazzi delle scorte. I siciliani onesti e lavoratori, quelli che Cammilleri definisce “di scoglio”, che questa terra non la lasciano ‘manco ammazzati’. I giovani. Quelli a cui promettono futuri a basso costo e a base di corruzione. Spesso stanchi di promesse da marinaio, noi gente di mare ce ne andiamo; e quelli che restano, per sopravvivere dovranno piegarsi al sistema, costretti a fare il doppio-gioco del doppio-stato. I giovani, la terra di mezzo di quest’isola, ai quali è chiesto di riprogrammare le mappe della geografia siciliana, di arginare i fiumi della disperazione, di smussare le curve di livello delle montagne di ingiustizia.
Contare, camminare, cantare: questa è la ricetta. Cento passi è la misura. «Gridando forte, senza aver paura», come cantarono i Modena City Ramblers in memoria di Peppino Impastato. Come scagliò focoso il suo grido di dolore – divenuto in un battibaleno un anatema – Giovanni Paolo II, ai piedi del Tempio della Concordia di Agrigento: «Che sia concordia! (…) Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte! Lo dico ai responsabili: convertitevi!» E’ la voce di Libera di don Luigi Ciotti e delle sua rete di cooperative, per le quali tanti giovani ogni giorno lavorano.
Facciamoci coraggio! Lazzaro è la prova che le cose possono cambiare, che ‘niente mai cambierà in Sicilia’ è una menzogna propria di chi la mafia la alimenta, di chi ci si identifica, di chi la mafia “ci piace”. Coraggio, Bernardo; ce ne vorrà a dismisura per pentirti, per chiederci scusa dal cielo. Coraggio fa anche rima con buon viaggio: la tua mafia, il tuo male, la tua morte non avranno l’ultima parola.
L’ultima parola é questa: noi vinceremo!

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