Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Come chitarre da accordare: sono uomini dalle voci stonate, qualcuno stamane ha la camicia abbottonata male a causa di una non consuetudine ad indossarla. Qui dentro meglio la tuta e le ciabatte o tutt’al più magliette di fortuna e giubbotti fuori stagione. In carcere l’arte d’arrangiarsi è una virtù di patrimonio comune. Eppure oggi è una delle poche occasioni nelle quali li contempli vestiti a festa: profumati coi profumi più strani, gli occhi che brillano dietro rughe di stanchezza e quell’ebetudine stanca di chi s’è assuefatto ai tempi lunghi della galera e dell’attesa. Per tutto l’anno i loro sguardi sono il compendio del Codice Penale, stamattina il loro sguardo è vestito a festa e probabilmente ha il sapore semplice del primo mattino di Pasqua. Chissà da dove saltano fuori quei vestiti colorati, quei pezzi di stoffa giovani che stonano su età non più giovani: nascosti per settimane intere in quel bugigattolo che viene definito “cella”, magari accatastati sopra i pacchi della pasta Barilla o appena dietro la biancheria lavata. Non conta da dove vengono, conta che stamattina mettono gioia nello sguardo di chi la Pasqua la contempla da dietro le sbarre di una patria galera come quella di Padova.

Suono-chitarra-classica

Celebrare la Pasqua è intonare il canto della speranza, di quella speranza che sboccia sul terreno disintegrato della Croce. La speranza per chi abita dietro le sbarre è il secondo nome del Vangelo: senza di essa qui dentro si morirebbe di disperazione, per assuefazione, o forse per una semplice mancanza di luce. Perchè a guardarli nel volto questi “avanzi di galera” – che per me sono semplicemente i miei parrocchiani – sono bambini che hanno paura di tutto: del buio e di attraversare la strada, di rimanere soli e di sentirsi abbandonati, di una lettera che non arriva e di un sorriso ambiguo. Di un cenno di voce intonato male o di un semplice sguardo minaccioso. Per loro oggi è Pasqua, come lo è stata per il Buon Ladrone in quel primo venerdì santo della storia: perchè in loro compagnia impari ben presto che la grazia di Dio è all’opera misteriosamente nei loro cuori. Sono uomini del crocevia, laddove i fili del bene si intrecciano inesorabilmente con i fili del male, dove la morte e la vita si affrontano in prodigiosi e quotidiani duelli per strappare un brandello di storia a questi uomini scaraventati a terra da loro stessi o dal destino più ineluttabile.
Il vestirsi a festa è un segno di nobiltà e di accoglienza: ci si veste a festa per l’arrivo di una persona speciale, di un ospite gradito, di un volto amato. Ecco allora che i loro vestiti raccontano la gioia del cuore di chi ha incontrato un Uomo che dalla Croce ha dato l’annuncio più bello: ha promesso che non vorrà mai la loro morte, ma il suo sogno rimarrà quello dìavvertire un giorno la loro conversione per tornare ad insegnare loro come si fa a vivere da uomini migliori. Domenica scorsa non affollavano festanti le piazze di Padova: forse per questo i loro canti stonati e le loro litanie affaticate destano sospettose credenze nel cuore di molti e non raccolgono l’affetto di troppi buoni cristiani. Non che a loro importi granchè: il buon ladrone – che di loro potrebbe essere il santo patrono – non ha nemmeno un posto nel calendario cristiano, forse per non turbare più di tanto la fede tranquilla e composita della catechesi ordinaria. Eppure ciò che conta è contemplare oggi la nostalgia della Risurrezione nei loro occhi: la luce ha un sapore indescrivibile per chi da tempo vive nelle tenebre. E non è più disposto a barattare una abat-jour per un raggio di sole: per questo oggi si sono vestiti a festa.
Perchè un Uomo condannato a morte ha riacceso in loro la nostalgia della Vita.

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