Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Nel cielo, stasera, c’è una luna che brilla da far invidia al sole: tutt’attorno a lei, una trapunta di stelle che accarezzano il suo bagliore. E’ una luna degli inizi, quella che nel vuoto del cielo si accovaccia su se stessa, formando una falce: «O falce di luna calante che brilli su l’acque deserte, o falce d’argento, qual messe di sogni ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!» (G. D’Annunzio). Fra poco sarà luna crescente, quella della “gobba a ponente” come diceva il nonno.
Un uomo che, armato di proverbi, non ha mai sbagliato una semina.
Qui, seduto sulla collina del Capitello della Peste, l’ammiro: è bellissima, è un piccolo spazio colorato, tutt’attorno a lei risplende un vuoto sconfinato, quasi un vuoto-batticuore, di quelli che ti prendono e ti portano via. Osservandola, poi, m’accorgo di una stranezza: il cielo è così terso, che non sto guardando la falce luminosa della luna. Il mio sguardo continua a ritornare a quel vuoto – delineato in penombra – che entro un mese sarà tutto pieno. Mi incuriosisce quel vuoto di luna, è strabiliante: somiglia al grembo di una donna ormai prossima al parto. A seconda di come lo guardi, sottrarrà luce alla luna oppure, notte dopo notte, cederà posto al suo bagliore. Da che punto guardi la luna, tutto dipende.
Da questa collina, dopo la peste del 1535, la mia gente è ripartita. Sono seduto sopra un cimitero di salme: è tutta gente morta durante quel putiferio di morte. Questo capitello “è un promemoria!” mi direbbe il nonno se ancora fosse vivo, portandomi a spasso per la nostra splendida terra. Guardo la luna, e lei mi (ri)guarda: abbiamo delle confidenze notturne che ci siam scambiati negli anni. La sera, dalla terrazza di casa mia, tante volte, cercandola le parlo, mi confido, chiedo lumi. Anche un po’ della sua luce. Quando è così, a mò di falce, mi piace da mancarmi il fiato: pare una che, vedendoti passare davanti casa, ti apre la porta, invitandoti a fare ingresso: “Entra, siediti qui che ce la raccontiamo”. Da quando i miei nonni non ci sono più, ho perduto il fare filò: lo struggimento di quelle conversazioni rimane la più bella teologia mai sentita. E’ d’allora che io, il lutto, non lo sconto andando al camposanto ma quando, passando in fronte a quella stalla, ritorno con il pensiero a quelle serate fanciulle. Al chiaro di luna.
Poi, piangendo senza che qualcuno mi veda, mi ritrovo a sorridere.
Sorrido così, senza accorgermene: “Dev’essere così che si ricomincia” mi dico. E, appena posso, prendo per mano quel falcio di luna: lì, in un novanta per cento di vuoto appena appena illuminato, abitano i miei affetti, la mia memoria, i battiti di tutta la storia del mio casato, della nostra gente. Mi mancano assai, ma il loro vuoto non ho mai voluto riempirlo: non mi piacciono le persone che vanno e vengono lasciando dei vuoti che altri, arrivando dopo, riempiranno. Non sono presenze per me affidabili: un affetto, per essere tale, quando se ne va deve lasciarmi dentro un vuoto incolmabile, impossibile da riempirsi. Ecco perchè mi innamoro della luna a forma di falce: quella falce luminosa, sotto sotto, illumina con discrezione tutto il resto attorno. Lasciandolo nella penombra, che è vuoto di luce, ma non è un vuoto spento: è un vuoto che, soffusamente, ti parla.
Al mio paese, come nel resto d’Italia, sono i mesi della ripartenza, dopo la grande delusione. Sono i giorni più favorevoli: “Evviva san Rocco! – mi ha scritto col sorriso la più bella del mio paese, quella del primo bacio al capitello – Anche stavolta ha vinto la peste: abbiamo il santo in comune più forte del mondo!” Ho riso tantissimo: è la teologia elementare, quella alla quale siamo cresciuti qui, in questo splendido angolo d’Italia, la Pedemontana Vicentina. “Abbiamo sempre avuto ottimi gusti. Anche stavolta ricominceremo”. Lei ha affilato la memoria, come si affila la falce di luna: “Ricorda che, dopo una delusione, c’è sempre un bellissimo momento nel quale senti dentro una voglia matta di ricominciare. Da te stesso/a!”: ha chiuso il suo messaggio così. Di punto in bianco.
Ricominciamo, dunque.

Da quello spazio vuoto che la falce di luna illumina. 

La pandemia ha tentato d’imbastardirci anche la fede, oltrechè il fisico. Ci ha tempestati di dubbi: su Dio e la Madonna, sui santi e sul Papa. Di sospetti, il più terribile dei quali è che l’untore fosse a portata di mano, sotto casa, dentro a casa: per mesi non ho più abbracciato mia madre, non ho dato una pacca sulla spalla a mio padre. Mi sono mancati i gesti d’affetto: “Sei un prete, non puoi!” mi starà dicendo qualche lettore un po’ stordito. E’ proprio perchè son prete che mi sono mancati di più: nella mia promessa di celibato ho guardato bene non fosse allegato anche il voto di castrazione. I miei affetti (quelli veri) sono sempre stati l’impronta di Dio sulla mia carne: come Francesco d’Assisi, in punto di morte, ha chiesto i dolcetti che gli faceva Jacopa dè Settesoli, vedova del Frangipani, così io chiedo l’affetto per sopravvivere all’alta marea del mio vivere spericolato.
Vuoto dappertutto, invece: totale, indivisibile, ossessionante.
L’Italia sembrava una Repubblica democratica sospesa sul vuoto.
Eppure i fatti accaduti non sono stati un passaggio a vuoto: sono stati un passaggio sul vuoto, è tutta un’altra cosa. Nel giro di una notte, abbiamo dovuto improvvisarci equilibristi: come chi, camminando su di una fune, attraversa un vuoto, scortato soltanto dal brivido che ti eccita e ti concentra, impaurendoti. In bilico sopra il vuoto, anche il vuoto di Dio, ci ha punzecchiato qualcuno. Horror vacui («orrore del vuoto») scrisse Aristotele. Dopo di lui, si prende a prestito la frase per alludere a coloro che tendono ad eliminare ogni spazio vuoto che si trovano davanti. E’ finita, dunque, così?

Non accetterò mai che delle morti siano state invano.

18

Ho attraversato tutta la stagione della pandemia dentro una patria galera: sono stato fortunato, ancora una volta, ad abitare le mie giornate con gente che era già pronta a vivere in libertà limitata. Sospetto che, per tanti di loro, questa stagione non sia stata così drammatica da vivere come per altrettanta gente di fuori. Vivendo con loro, dunque, mi sono scoperto attrezzato all’emergenza. Un giorno, poi, celebrando la messa mi è tornata alla mente la figura di un vescovo che, da sempre, mi affascina: Francois-Xavier Nguyen Van Thuan. Un vescovo vietnamita (prossimo santo, ci scommetto!) che ha vissuto dal 1975 al 1998 in un carcere, arrestato con l’avvento del regime comunista al suo paese. L’ho conosciuto attraverso le pagine di un libretto che, nei vari traslochi, non ho mai perduto. C’è una pagina rimasta piegata da più di vent’anni, dai primi anni del seminario maggiore. In quella pagina, scritta per la GMG del 2000, ha confidato ai giovani una sua scoperta sensazionale: «Tutti i prigionieri, incluso io stesso, aspettano ogni minuto la liberazione. Ma poi ho deciso: “Io non aspetterò. Vivrò il momento presente, colmandolo di amore». Fu il segreto della sua libertà nella prigionia: «Se io passo il mio tempo ad aspettare, forse le cose che aspetto non arriveranno mai. La sola cosa che arriverà è la morte». E’ morto nell’anno 2002.
La sua storia mi ha consolato, ispirato, incoraggiato. Accompagnato. Non ho mai fatto la conta dei giorni che mancavano alla scadenza del lock-down, né tantomeno aspettavo, come tanti altri, l’appuntamento serale della Protezione Civile che aggiornava sull’andamento. Mi son fatto forza: “Invece che aspettare la fine, proviamo a vivere il presente: vediamo cos’ha da dirmi” mi sono detto. E, pur faticando i primi giorni, ho scoperto una stagione ricca di frutti, d’intuizioni, di malinconie e di rimproveri. Di vita che non è stata vissuta invano.
Adesso che la morsa si è mollata, ho voglia di ricominciare, come un atleta dopo un grossissimo infortunio: “Da dove, ripartire don Marco?” mi chiedono in tanti. Non ho l’età giusta, né la maturità, per additare sentieri senza prima averli percorsi di persona. Non mi resta che condividere la mia ripartenza: “Non saprei che dirti, amico mio: oggi è ancora tutto opinabile. Io, nel frattempo, riparto dal solito posto di sempre. Da Betlemme: finora non mi ha mai tradito”.
Betlemme è la terra dove il vuoto si mostrò necessario: era quello che Dio cercava per dare un domicilio al suo Figliolo prediletto. Stando ai Vangeli, però, la notte in cui è nato c’era il tutto-esaurito in città. Tutti i posti erano pieni, tant’è che «non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,7). L’unico vuoto rimasto a loro disposizione, era una grotta: affittata che fu, all’addiaccio venne al mondo Iddio. La lezione rimase celebre nella storia: quando tutto è pieno, sazio e saturo Dio fa fatica a trovare posto per nascere. Occorre un vuoto – una fessura, una ferita o un non so ch’è d’imperfetto – per permettergli di piantare la sua tenda vicino a noi. Come in alta quota gli alpinisti che tentano una vetta per anni impossibile.
Uno spazio vuoto abitato da gente capace di partorire dei vuoti dentro loro: Maria e Giuseppe. La prima, sorpresa d’imbarazzo a Nazareth, aveva il grembo ancora vuoto, a disposizione: nessuna semente d’uomo l’aveva finora abitata. Giuseppe, nel frattempo del subbuglio, fece a pugni coi suoi sogni: in un sogno, poi, accettò di fare spazio ai sogni di Dio. Si svuotò per allevare Dio. Lo stesso che a Natale, pur sapendo bene chi fosse suo Padre, «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò/svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Da quella notte, essere gente vuota è essere nella condizione migliore d’ospitare Dio. “Vuoto a rendere” è una frase che leggo nelle casse delle bottiglie d’acqua vuote: è invito a non gettarle, dichiarazione d’interesse da parte del rivenditore. Annunciazione di altri viaggi d’acqua possibili per quelle bottiglie. Per quelle persone.
Da Betlemme a Gerusalemme, dalla terra del pane alla terra dove Iddio si fece Pane da masticare: trent’anni a cercare vuoti dentro i quali Dio voleva fare risuonare la sua Novella Buona. Vuoti a rendere: puttane, bistrattati, gogliardi e seduttori, magnacce e devotissimi. Strabici, storpi, muti, disgraziati: chi si salvò, si salvò perchè aveva un vuoto a forma di Dio. Trovatolo, ne fiutarono il valore. Poi, a Gerusalemme, finì come tutti ben sanno: che lo ficcarono in croce perchè colpevole di avere amato troppo il mondo. Urlò come un cane, poi accettò tutto.
Tre giorni dopo, a Gerusalemme, fece di testa sua: risuscitò. Fu così che la Città Santa divenne una città di ripartenza. Ricominciò, come a Betlemme, da un vuoto. Vuoto che inebriò di sbigottimento le donne corse al sepolcro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. E’ risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto» (Mc 16,7). Un sepolcro vuoto: ancora un vuoto a disposizione. Fu d’allora che il vuoto pare essere diventato il marchio di fabbrica d’Iddio e delle peripezie di tutti coloro che gli vanno dietro. La mia fede, a conti fatti, è un bellissimo racconto che poggia sul vuoto, in bilico nel vuoto: Cristoddio – nato tra i pastori, alleatosi coi pescatori – si improvvisò equilibrista sul vuoto. Divenne esperto mendicante di vuoti a disposizione. E’ la maestria con la quale l’evangelista Marco chiude il suo Vangelo: in silenzio, col silenzio delle donne. Ogni volta che medito quella conclusione, torno bambino: quando, nella casa in montagna, dalla cucina sentivo cadere uno zoccolo nel piano di sopra. Subito dopo, quasi sempre, cadeva anche l’altro: per questo, dopo che il primo cadeva, mi mettevo le mani nelle orecchie per prepararmi. Mi succede un po’ la stessa cosa col vangelo di Marco: una scarpa cade (la risurrezione), io mi aspetto cada anche l’altra. Che, invece, non cade: farla cadere sarà la missione che spetta al cristiano. A me. E mi ritrovo a vedermi con le mani nelle orecchie, sospeso al vuoto di quell’attesa che, nel frattempo, è come se mi scatenasse in testa un branco di pensieri, d’aspettative, di ansie e di trepidazioni.

E’ la riscoperta del vuoto la vera eredità di questa pandemia. Quando, poi, il 27 marzo 2020 ho visto il Papa attraversare, abitare e benedire quel vuoto, ho compreso che era un vuoto a mia disposizione. Alla mia portata E’ ritornato con prepotenza la sera del Venerdì Santo, in quella Via Crucis che ha commosso il mondo intero: una ciurma d’umani perlustrava una Piazza San Pietro spettrale, con il solo arnese della Croce. Un vuoto che Papa Francesco, al termine di ogni Angelus domenicale, non ha mai smesso di benedire dal balcone della Loggia: superstizione, rito propiziatorio, nostalgia della piazza gremita? Nulla di questo: il semplice fatto che quel vuoto, ancora una volta, era un’occasione di desiderio, una verifica in corso di quanta sete di Dio avevamo. Un vuoto benedetto – detto bene – è l’esatto contrario del vuoto maledetto, quello che fa bestemmiare pure il credente. Per chi crede, dunque, questo vuoto è una presenza: la mancanza che svela, è la traccia di un amore possente che fa sentire la sua mancanza. E per chi non crede, il vuoto rimane comunque un’esperienza mistica: ci sono dei vuoti necessari per poter creare. Laddove è tutto pieno, anche le operazioni più salvifiche risultano impossibili: “Presentarsi a stomaco vuoto” raccomandano in ospedale prima di un’operazione delicata. Non è solo un ricordo ospedaliero.

Riparto dal vuoto, dunque.

Dal vuoto di Betlemme: l’uomo ha bisogno di un vuoto per (ri)nascere.
Da quello di Gerusalemme: la città, con i suoi vuoti da non abbandonare.
Dal vuoto di casa mia: la mia Chiesa è uscita svuotata. Dell’inutile.

(M. Pozza, Ciò che vuoto non è, San Paolo 2020)

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