Come un grido disperato: perchè a volte le parole rimangono l’unico arnese a disposizione per non morire davvero. E dentro le parole, magari attorcigliate come appare sovente la loro esistenza, la voglia di dire al mondo: “ci siamo anche noi!”. Nonostante tutto. Gli “uomini-ombra” – così vengono definiti in gergo i detenuti sulle cui spalle pesa la condanna di un ergastolo ostativo – sono una porzione della mia parrocchia del carcere: i loro volti stanchi e le loro voci silenziose, i loro passi affaticati e il loro ansimare quotidiano, sono per me fonte di inquietudine e di passione ogni qual volta celebro l’eucaristia per imparare a comprendere il male senza mai giustificarlo. Le proteste servono per sentirsi vivi, per dare voce ad un ambiente relegato ai margini della società, per far capire il peso di una situazione sempre più dalla difficile interpretazione. Tuttavia la protesta che propongono stavolta – tramite le parole di Carmelo Musumeci – è una protesta che ha più i colori della vendetta che della ricostruzione, di quella rivalsa che tante volte loro stessi condannano quando l’avvertono calarsi dentro le loro vite.
Se è vero che per fare il bene non occorre essere cristiani – come ha voluto sottolineare la Caritas di Padova nel suo convegno di quest’anno – è altrettanto vero che c’è una porzione di popolo cristiano che spende la sua vita dentro le trame confuse di un carcere: non solo preti e suore, ma anche uomini e donne di buona volontà che, dopo essere stati guariti da Cristo, avvertono il sogno di poter condividere la bellezza sanante e risanante di un incontro. Sono uomini e donne che varcano le sbarre col Vangelo nel cuore e l’amabilità nello sguardo: a volte ci riescono, a volte un po’ meno. Pronti sempre a riprovarci, però. Entrassero da loro stessi, probabilmente sarebbero già fuggiti: troppo forte la densità del male e la confusione della menzogna per accettare di berne più di una volta. Costoro, però, ci rimangono perchè sotto le ceneri di una sconfitta sentono ardere il fuoco di una brace, il sospetto di un possibile riscatto. Accettano la sfida non per loro stessi o per farsi belli di fronte al mondo ma perchè inviati da un Dio che chiede loro di leggere nell’abisso del cuore umano una briciola di luce. Tanti di noi ci entrano dopo aver pregato: è nella preghiera che trovano la forza di continuare a credere nell’uomo. Chiedere a costoro – a me prete – di scioperare il giorno di Pasqua è non aver forse compreso dove stia la forza per abitare con voi: una forza che abita nello sguardo di un Uomo Innocente crocifisso per amore che a noi ha dato appuntamento per incontrarci nel silenzio delle vostre vite. Un uomo che all’omertà del popolo rispose con la fierezza dell’innocenza, che al pressapochismo della giustizia del tempo rispose con la fatica della Croce. Un uomo che non vendicò il tradimento di un amico ma gli lavò i piedi col medesimo affetto di tutti gli altri. Un uomo sconvolgente, il cui ricordo – seppur peccatori e imprecisi – tentiamo ogni giorno di ringiovanire dentro il grigiore della nostra parrocchia. Un Uomo che per noi è il tutto che ci rimane quando la vita è messa a dura prova dalla morte.
Carmelo, chiedici tutto e saremo disposti a metterci in gioco. Non chiederci, però, l’assurdo, quell’assurdo del quale anche voi provate ribrezzo e vergogna quando s’attacca alla vostra pelle. Non chiederci di “scioperare” proprio il Mattino di Pasqua: è l’aurora che ha dato inizio all’avventura cristiana, è il mattino che ha riacceso il sorriso di una Madre, sono le ore delle quali noi cristiani siamo profondamente gelosi. Chiedici tutto, non chiederci l’assurdo: Perchè per noi l’Amore ha un volto e un nome: il Cristo Risorto. Che il mattino di Pasqua ha firmato lo sciopero più bello: lo sciopero della disperazione.
(da Il Mattino di Padova, 26 marzo 2013)
(*) Il dibattito è stato rilanciato anche nel portale livesicilia.it.