Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Sommelier assaggiatore vino

Il brano di Ester rappresenta un estratto da un episodio che Israele ricorda nella festa di Purim: uno dei funzionari dell’imperatore persiano congiura contro il popolo ebraico, ignorando che Ester, regina, sia di origine ebraica. Il padre adottivo (e cugino) Mardocheo le suggerisce di intercedere presso l’imperatore, per salvare il suo popolo. Questa richiesta è molto più impegnativa di quanto noi possiamo immaginare (tant’è che, a una lettura superficiale, risulta arduo comprendere la drammaticità con cui è presentata la scena). Ester fa parte dell’harem dell’imperatore, ma non è consentito (pena la morte) parlargli, senza essere stata da lui convocata. Ester, però, ha una richiesta di vitale importanza da avanzare: accetta di mettere in gioco la propria vita, pur di salvarne altre e, dopo un digiuno di tre giorni, decide di compiere il grande passo. Si presenta al re, che, rendendosi conto, che la questione era di vitale importanza, non solo non la condanna, ma, anzi, manifesta apertamente la propria vicinanza, tanto che arriva a chiederle: «Che cosa vuoi, Ester, e qual è la tua richiesta? Fosse pure metà del mio regno, sarà tua» (Est 5, 4). È inevitabile che, ai nostri orecchi, tale promessa suoni sinistramente in sinossi con quella che Erode elargì a Salomé e di cui fece le spese Giovanni il Battista. Entrambe intercedono, ma Ester cerca la salvezza, non la morte altrui. Infatti, grazie al suo coraggio, non solo è evitata la strage, ma il popolo ebraico ottiene anche l’autorizzazione di opporsi agli aggressori.

Il Vangelo ci mostra un’altra intercessione: è Maria che ‘chiama’ il miracolo, mentre Gesù si nega. Ci resta, anzi, quasi il dubbio che la Madonna, paradossalmente, in questo episodio abbia preso sulle spalle le sorti dell’umanità e, dimenticando d’essere Madre di Cristo, si trova ad affrettarne la “vita pubblica”, per la salvezza dell’umanità. Paradossalmente, perché nessuna madre può essere contenta di lasciare che il figlio vada alla morte e, dalla Presentazione al Tempio, lei aveva ricevuto quelle parole misteriose e profetiche di Simeone («una spada ti trafiggerà» Lc 2,35), che suggerivano che quel Figlio, che aveva dato alla luce, non sarebbe mai stato per lei. È così per ogni madre: è sempre struggente arrivare alla consapevolezza che i nostri figli non sono per noi. Culliamo quest’illusione con la pancia che cresce, ci aggrappiamo ad essa quando iniziano i primi passi e soccombiamo di fronte alla dura realtà quando iniziano i primi «no», che sanciscono la profonda alterità dei figli, rispetto ai genitori.
Maria, dunque, contro il proprio interesse e con una delicatezza tutta al femminile, facendo ballare l’occhio, si accorge che nell’aria c’è qualcosa che non funziona. La sensazione che la festa possa guastarsi. Che la famiglia dello sposo possa fare brutta figura. L’intuizione precede e sostiene la fede, nell’intercedere, presso il Figlio, affinché faccia qualcosa, Aveva già chiaro quale fosse il disegno di Dio su di Lui? Di certo, le erano rimaste nel cuore quelle parole, che le risuonavano continuamente nella testa, alternativamente, come minaccia e come augurio: «Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo» (Lc 1,32).
Nonostante fosse recalcitrante, di fronte all’insistenza della Madre, Gesù stesso cede: ordina ai servi di riempire le anfore e di portare al Maestro di Tavola. È inevitabile – in questo punto – pensare quale carisma dovesse avere il rabbi di Galilea, perché quei servi, pur – probabilmente – contrariati da una richiesta al di là di ogni logica, si mettessero al lavoro, secondo le indicazioni.
Difficile immaginare – del resto – quale potesse essere stata la loro espressione meravigliata, quando il Maestro di Tavola, degustando quanto usciva da quelle anfore (che loro avevano riempito d’acqua), ha esclamato: ««Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora»(Gv 2, 10).
Non è che il vino fosse stato dimenticato. Se era finito, viene da pensare che le ipotesi possibili sono – inevitabilmente – due: o avevano fatto male i conti, oppure gli ospiti ci avevano dato dentro più di quanto avevano previsto gli sposi.
In entrambi i casi, il miracolo di Cana mostra due caratteristiche, che si ripeteranno, sistematicamente, in tutti i miracoli che gli “estorceranno” (perché, a leggere il Vangelo, pare proprio che Cristo non abbia alcuna voglia di moltiplicare i miracoli, anzi: è sempre necessaria l’insistenza e. quasi sempre, è successivamente domandato il silenzio sull’accaduto). La prima caratteristica è la scelta – deliberata e non necessaria, essendo, in quanto Figlio di Dio, Dio come il Padre e dunque in grado di creare – di partire da ciò che l’uomo offre (l’acqua a Cana, i pani e i pesci del ragazzo nella moltiplicazione). La seconda è poi – senz’altro – l’abbondanza: il “vino nuovo” non è solo aggiunto, è anche migliore, così come la folla non è solo sfamata, ma il prodotto è persino eccessivo, tanto che Cristo si raccomanda di raccogliere i pezzi avanzati (dodici ceste) per evitare gli sprechi (Mc 8,19).
Il commento del Maestro di Tavola allo sposo richiama alla mente un’altra domanda:

«Maestro buono, cosa devo fare per avere la vita eterna?» (Mc 10, 17)

È la domanda del giovane ricco. Sicuramente Gesù ne rimane colpito se, prima di rispondere alla sua domanda di ricerca di senso, nota: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10,18).
È una precisazione non da poco, perché ci ricorda cosa sia la bontà e da dove provenga. Nessuno può scoprire davvero come essere buono, se non attinge alla fonte. Eppure, chi accetta la radicalità, può portare agli altri il profumo di Cristo.

«Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10)

Ecco perché, anche a Cana, l’abbondanza diventa un connotazione fondamentale. Cristo è la Vita, che dà significato e gusto alla nostra vita.
«Senza di lui non possiamo fare nulla” (Gv 15,2)». È una constatazione, non una dichiarazione di resa. Quando la vita ci schiaccia, siamo tentati di “giocare duro”, di impegnarci di più, di “spremerci” fino al midollo. Spesso, però, il risultato che ne consegue è nervosismo, litigi, stanchezza, insoddisfazione. È come se continuassimo ad aggiungere acqua alle anfore, nella speranza che possa diventare vino buono, anzi migliore di prima. Ma se viene da noi, inevitabilmente, rimarrà ancora acqua; al massimo, aumenteremmo la sua quantità, ma non la sua qualità.
La Madonna, invece, con la grazia che la contraddistingue, assolutamente priva d’ogni saccenza ma impregnata di esempio, ci mostra l’atteggiamento che ci conviene.
«Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5), dice ai servi. Eppure, è un suggerimento che, di sponda, arriva anche a noi, affinché ci affidiamo alla Sua parola, capace di trasformare il nostro impegno in qualcosa di fecondo, portatore di gioia (come il vino), a noi ed intorno a noi.
Perché la gioia è consolazione dello spirito e garanzia della presenza di Dio*.

Rif: letture festive ambrosiane nella II Domenica dopo l’Epifania, Anno C (Ester 5, 1-1c. 2-5; Efesini 1, 3-14; Giovanni 2, 1-11)

* Chiamo consolazione spirituale quando nell’anima si produce qualche mozione interiore, con la quale l’anima viene a infiammarsi nell’amore del suo Creatore e Signore; e, di conseguenza, quando nessuna cosa creata sulla faccia della terra può amare in sé ma solo nel Creatore di tutte.
Così pure quando versa lacrime che la muovono all’amore del suo Signore, ora per il dolore dei suoi peccati, ora della passione di Cristo nostro Signore, ora di altre cose direttamente ordinate al suo servizio e lode.
Finalmente, chiamo consolazione ogni aumento di speranza, fede e carità e ogni letizia interna che chiama e attrae alle cose celesti e alla salvezza della propria anima, quietandola e pacificandola nel suo Creatore e Signore. [S. Ignazio di Loyola, ES 316]


Fonti: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone

Fonte immagine: ilreporter

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