Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

NibaliLaToussuire

L’anno scorso – per celebrare l’impresa sulle pietre bagnate della Roubaix di Vincenzo Nibali – l’Equipe, la bibbia dello sport di Francia, coniò un aggettivo dalla bellezza travolgente e tutta italiana: «Dantesque». La gloria del sommo poeta a corollario di un’impresa che si tramutò poi in leggenda nella vittoria finale del Tour de France, consacrando un campione a tutto tondo. Vita dura per chi vince, però: gli si chiede subito di confermare quella vittoria, il prima possibile. Quello che quest’anno il mondo sportivo chiedeva a Nibali: duplicare la gloria del 2014. Nessuna stagione, però, è mai uguale ad un’altra: piccolissimi dettagli, leggere sfumature, correzioni millimetriche sovente fanno la differenza. E gettano dalla gloria alla polvere anche il più esperto degli umani.
Il Tour de France di quest’anno è stato per Nibali un lunghissimo calvario tra le strade di Francia: per chi è abituato a darle, prenderle è doppiamente seccante. La forza travolgente di Chris Froome, i meccanismi interni della squadra fragili e mancanti, la pressione di chi sa di dover essere all’altezza dell’annata passata. E poi quelle bordate micidiali da parte dei suoi capi che avrebbero tramortito il più indomito dei toreri. C’era tutto per fare i bagagli e tornarsene a casa. La letteratura ciclistica conosce scuse di ogni genere e gusto: dalla più banale asma bronchiale causata dai pollini alla semplice influenza, dalla dissenteria all’allergia, dalle complicanze intestinali al fatto ch’è inutile insistere quando il fisico non mostra segni di ravvedimento. Mille scuse, con relativi responsabili: l’insalata lavata male, un pezzettino di carne avariata, il troppo caldo, il troppo freddo, gli sbalzi termici, gli alberghi senza climatizzatore. Quando il fisico non segue la testa, ritirarsi è la più accattivante delle tentazioni. Vincenzo, invece, ha scelto di rimanere: sotto le intemperie delle critiche, esposto al fuoco amico di chi gli rinfacciava un inverno con qualche distrazione di troppo, col vento in faccia di coloro che, seppur italiani, gioivano della caduta degli dei. E’ rimasto al fronte e, con l’onestà del campione, non ha cercato scuse: «Non sono nemmeno il fratello del Nibali dell’anno scorso». Onesto fino in fondo, senza scusa alcuna. Nel gruppo, senza mollare la presa.
A testa alta e col petto fasciato dalla bandiera tricolore che avvolge il campione italiano. Un giorno, quello dopo, quello dopo ancora: piccoli segnali di ripresa, sensazioni infinitesimali che per un fuoriclasse in certi frangenti hanno la preziosità dell’oro fino, timidi scatti più d’orgoglio che di classe. Eppur qualcosa si muoveva. Lasciava trasparire. Fino a venerdì, nella tappa con arrivo a La Toussuire che da sola valeva una carriera, con un’altimetria alpina da montagne russe. Scatta che mancano più di 50 km al traguardo: lo rivedono sul podio, baciato da un sole che mai era stato così giallo: a chi nasce fuoriclasse, rimettere ordine nella storia è questione di onore, di piccoli dettagli. Quello dipinto a tutto tondo dalla medesima Equipe. Anche stavolta un’espressione ad hoc, su misura, ad altezza dell’uomo: «Pour l’honneur». Una vittoria per l’onore: di se stesso, della sua nazione, dei suoi tifosi. Di chi gioiva nel vederlo caduto nella polvere, direttamente dal cielo della gloria. Chapeau!
In sella ad una bicicletta: una metafora tra le più splendide per tratteggiare l’esistenza. La bicicletta, ferma, cade: per stare in piedi ha bisogno di stare in moto. Lo sapevano bene i latini: «Solvitur ambulando» (“I problemi si risolvono camminando”). Perchè, perduta la possibilità di cogliere il bersaglio grosso, non è necessariamente la fine: rimane pur sempre un onore da salvare. Un quasi testamento per l’Italia, i cui colori Vincenzo Nibali porta fieramente nel gruppo: ci sono persone che sognano la vittoria, altre che restano sveglie per ottenerla.

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