Il suo cognome non è morte, bensì terrore. Non gli basta affatto il sangue delle carni trapassate a fil di spada, gli urge possedere l’agitazione del cuore: quella che confonde, fa dimenare, scodinzola. Lucifero, e i suoi fratelli, è una bestiaccia intelligentissima: è il principe satanico della divisione, odia i legami d’affetto, silura i tentativi di rammendo. A Parigi, dopo la satira di Cahrlie Hebdo, non ha avuto paura di ritornarci vicino, al Bataclan, cinquecento metri prima: per colpire due volte negli stessi paraggi. Sfrontatissimo. Ha colpito con lucidità, come di chi premedita le gesta a priori: il teatro, il ristorante, lo stadio. Mica luoghi qualsiasi, bensì i luoghi della musica che diventa sapere e trastullo, dell’intimità di un pasto condiviso, della passione popolare attorno ad una fede calcistica. «I luoghi della depravazione dei crociati» a sentire gli assassini. Dei crociati: che saremmo noi. Quelli ai quali oggi viene in mente di fare un minuto di silenzio, di giocare col lutto al braccio, d’indignarsi nelle piazze reali e virtuali. Come se questo simbolismo di compassione bastasse ad arginare quello del male che, nel frattempo, da simbolico è diventato reale. Tristemente storia.
Quando la chiamo – “Scusami, volevo sapere se sei ancora viva” – mi risponde: “Sto bevendo un caffè al bar”. Vive a Parigi, è una dei cervellini in fuga, studia le complessità della società di Francia per capire meglio la storia, le traiettorie, il presente e il futuro. Mi colpisce quel caffè bevuto al bar durante questi giorni di catastrofe. Ho sempre pensato che la storia trovasse la forza di rialzarsi dopo ogni catastrofe. Se le catastrofi, però, fossero così lunghe da dipanarsi nello spazio di un’intera generazione, che cosa resta da fare a quelli nati in quel frammezzo di tempo? Attendere con le mani-in-mano il boia col passamontagna della porta accanto? C’è chi decide di diventare inferno, per non accorgersi dell’inferno. Chi non l’accetta, beve un caffè: il non-inferno dentro l’inferno. Non gli è rimasta che un’àncora: credere alla ripresa della storia durante le catastrofi. Non dopo. Eccolo il volto di Lucifero, lo smargiasso a libro-paga del sangue: spargere insicurezza ovunque, attaccare il cuore da postazioni diverse, far sentire l’uomo inadeguato in qualsiasi punto si trovi della sua città. Generare una confusione somma del tutti-contro-tutti, visto che poi, a carte confuse, non c’è nessuno meglio di lui capace di sguazzarci con maestria. Stamattina l’Italia è tutto un flashmob, anche la scuola: il luogo del sapere, che dovrebbe essere del sapore, il laboratorio della sapienza. Muoversi per che cosa? Per solidarietà: non serve più. Per vicinanza al popolo d’oltralpe: men che meno. Per dire “ci siamo”: sono i soccorsi di Pisa. C’è un’unica cosa da fare: «Bisogna avere il coraggio di spiegare ai nostri ragazzi cosa è accaduto a Parigi. Perchè le nuove generazioni qui in Italia sono state troppo protette e isolate dal concetto di sofferenza, che invece fa parte reale, concreta della vita di tutti noi». Mica parole d’imbonitori. E’ Liliana Segre a dirle, una dei 25 bambini sopravvissuti alle carambole fumanti di Auschwitz. Dire loro: “Siamo in guerra, ragazzi! Restiamoci con le armi del pensiero, anche dell’amore, prima ancora della consapevolezza. Non sottraiamoci alla barbarie in nome di Dio.
C’è un Giubileo della Misericordia che bussa urgente alle porte. Sarà la parola più a rischio-vilipendio di tutto un anno: misericordia in tutte le salse, condita e contraffatta ad oltranza. Siccome sono gli uomini a fare la storia, allora, per vestire la misericordia, tiriamo fuori dall’armadio l’unico vestito che le stia bene addosso, senza farla sentire in imbarazzo: la misericordia verso se stessi. Per perdonarci d’aver archiviato come quisquilie le avvisaglie di profeti arguti e indipendenti. Di gente che, per rimanere fedele alla sua Betlemme, ha accettato d’essere derisa, irrisa. Che oggi, giornale alla mano, mostra d’aver saputo cogliere frammenti di luce prima che diventassero pagine cruente d’odio.
Bevo un caffè: per mostrare di amare la vita durante. Non solo dopo.