Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

orme

Racchiudere l’eternità nel momento, conciliare il “qui ed ora” con il “già e non ancora”, incastonare l’immensità del divino nella finitezza dell’umano. Doti da Dio, capacità da funambolo, gesti acrobatici che spesso lasciano increduli, quando non proprio scettici. Il coniglio nel cappello a cilindro fu invenzione divina, prima ancora che passatempo degli illusionisti.
Stringere in un abbraccio molteplicità ed unicità, benedicendo la diversità ma senza mai perdere di vista la coralità, è un’abilità che in alcune occasioni l’uomo ha saputo apprendere per esprimere il meglio di sé. Un’orchestra non è tale con una sola tipologia di strumenti, ma anche una chitarra solitaria ha sette note a disposizione ed una vasta gamma di semitoni.
“Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole”, recita l’incipit del racconto della torre di Babele. (Genesi 11,1)
“Un solo labbro e parole uniche”, ad essere precisi, dice il testo ebraico. È un’uniformità più di intenti piuttosto che linguistica, un’omogeneità mentale che esclude qualsiasi pensiero diverso, è progettualità pre-confezionata, nella quale non c’è spazio per il volo pindarico del genio di turno o della persona dotata di sogni. Annullare le differenze senza valorizzarle, un’uguaglianza di massa facile da controllare e direzionare.
In realtà” – osserva Enzo Bianchi – “se c’è una parola unica, questa è la parola del più forte, del più potente, di colui che detiene il potere.” (E. Bianchi, Adamo dove sei?) Una parola che non ammette repliche, che vuole sempre essere l’ultima e definitiva, che non ama né il dialogo né il confronto con chi non concorda.
“Facciamoci un nome per non disperderci”, dissero.
Cercavano una stabilità che è immobilismo, quel mettere radici senza osare guardare lontano, senza sognare altri mondi. Staticità che teme ogni vento di cambiamento.
Per una Misericordia che, fin dai primi palpiti della Creazione, amava le differenze, quel disegno d’uomini dev’essere sembrato come tarparsi le ali da soli, la rinuncia a pensare in grande. Aveva separato il buio dalla luce, il cielo dal mare, gli animali di terra da quelli d’acqua: una sinfonia di differenze ch’era garanzia di benedizione, perché ogni cosa fosse unica e, proprio per questo, ancora più preziosa.
Non fu gelosia o capriccio di divinità pretenziosa, né sentimento di timore verso una costruzione che avrebbe dato fama agli uomini. Ma l’aspirazione alla grandezza, nel disegno divino, non contemplava alcun recinto totalitario, bensì la valorizzazione di ogni diversità – anche di quelle più scomode – ed il sapersi mettere-in-marcia quando necessario.
Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua.
Se la ride, questa Misericordia. Come chi sa che sta per combinare una marachella.
E fu confusione di lingue, impossibilità a comprendersi nell’immediato, dispersione negli angoli della terra. Chiese quel mettersi-in-marcia necessario ad aprire mente e cuore.
“Per essere chiamato con molti nomi Dio disfece la torre, la grandezza posticcia di uomini ridotti a maestranze. Scelse di essere nominato in mille lingue perché non si esaurisse la ricerca. È ancora lì, alla superficie del caos.” (Erri De Luca, Una nuvola come tappeto)
Un atto di Misericordia e non di gelosia, una benedizione e non una maledizione come ancora in troppi credono, un invito a mettersi sempre in gioco gli uni con gli altri.
“Alatevi, andiamo!” (Mt 14,42 e Gv 14,31)
Abramo partì da Ur verso una terra che gli verrà indicata più tardi, antepose la fiducia in Colui che lo invitava al cammino al sapere qual era il traguardo da raggiungere. Mosè, dall’Egitto al Sinai e dal Sinai all’Egitto, per poi vagare quarant’anni con un popolo verso una terra promessa: l’immobilità non fu mai nel suo essere fin dai suoi primi vagiti, affidati alla corrente di un fiume. Paolo di Tarso procedeva spedito verso Damasco, nel cuore la convinzione di servire, nelle vesti di persecutore, il Dio in cui credeva: le sue certezze crollarono come le intenzioni degli uomini a Scin’ar; moltiplicò i suoi passi, percorrendo il Mediterraneo nella nuova veste di apostolo delle genti.
A questi uomini-in-marcia Dio decise di affiancarsi nella Rivelazione, scegliendo d’essere l’Uomo-in-cammino, dalle rive del Giordano alle vie di Gerusalemme, dal mare di Galilea alla strada polverosa che conduceva ad Emmaus. Non poteva che essere altrimenti.
In questi giorni Cracovia è stata una nuova Babele, ma al contrario. Non dispersione, ma riunione di genti. Incontro di storie, di volti e di lingue. E silenzi carichi di senso e densi di significato: il non-dire è linguaggio anch’esso, ha per grammatica e sintassi l’ascolto attivo, la capacità di riflessione, il protendersi verso il prossimo con mente e cuore aperti.
L’esperanto, lingua creata a tavolino per una comunicazione globale, ha fallito miseramente: l’apertura all’altro si è messa-in-marcia a grandi passi, insieme al coraggio di “uscire da se stessi… un viaggio senza biglietto di ritorno”. Una volta che ci si è messi-in-marcia, infatti, non si è più gli stessi di prima, così come la goccia d’acqua che parte dalla sorgente di un fiume non è la medesima quando, dopo un lungo viaggio, si getta finalmente nel mare.
Dai quattro angoli del mondo due milioni di giovani hanno raccolto ed accettato l’invito, dimostrando con chiassosa allegria che a Scin’ar la Misericordia aveva saputo vedere giusto e guardare lontano.
“Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua.”
Al diavolo la staticità e la chiusura, al diavolo quelle parole uniche che cancellano i sogni e la vera grandezza dell’uomo. Esistono gesti che sanno essere più carichi di significato di un discorso, e poco importa se non si parla lo stesso idioma, se non si ha il medesimo vissuto o la stessa istruzione. Poco importa se non c’è quell’uguaglianza omologata voluta insieme alla costruzione della torre.
Un sorriso, una stretta di mano, le corde di una chitarra francese che s’incontrano con il ritmare di un tamburo brasiliano. Uno zaino tolto da una spalla dolorante e portato, con gentilezza, da un coetaneo più in forze e dalla pelle olivastra, tanto la mèta è la stessa, quella grande spianata che attende solo d’essere riempita di giovani. Piattini di patatine e bicchieri di succo d’arancia sui davanzali, alle finestre gli abitanti del luogo che salutano ed a gesti invitano al ristoro. Il mettersi-in-marcia dello spirito che s’incontra con quello dei piedi.
E la Misericordia, in un qualche angolino, se la ride festosa.
Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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